28.9.11
27.9.11
lettere da una corriera
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24.8.11
present continuous
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20.8.11
sottotony
per una continua mal interpretazione degli avvenimenti,
per lo sfinimento dei luoghi della memoria,
per l'accanimento altrui sui dettagli della storia.
poi non seppi più il mio nome.
eppure continuavano a chiedere
chi fossi
ed il perché delle mie azioni.
difficile credere che
non c'era calcolo nel mio oblio
quanto la messa in pratica
di una necessaria tecnica di sopravvivenza.
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29.7.11
il canto degli irpini
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27.6.11
l'illuminazione del vallatrone
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22.6.11
lettera ad un amico mai nato
l’idea di destinare una lettera a qualcuno che non esiste, se non nello spazio intimo compreso tra il sé e il fuori da sé, è un passo compiuto verso la follia, alla maniera del personaggio di saul bellow, herzog, che scrive ossessivamente a dio o al presidente dell’america, perché non riesce ad accettare se stesso. eppure è un atto necessario per sfidare la nostra identità confusa, intrecciata alla nostra epoca confusionaria, malata. per anni, abbiamo covato tutto dentro, fedeli ad un’immagine di noi edificata nell’adolescenza, avvinti al senso di colpa che ne è derivato, per la mancanza di fatti concreti. immagine in base alla quale tutti gli uomini sono uguali, il genio e l’abbrutito. tutti hanno pari dignità; tutti, a confronto con il bisogno di trovare risposta al dubbio estremo di una vita, la morte eterna o l’aldilà, ammutoliscono o straparlano e spesso può accadere che proprio i dotti zittiscano mentre gli stolti siano infusi dal dono dello spirito santo, la parola di dio. in ragione di una sorta di egualitarismo ideologico, un miscuglio di lacerti di socialismo e cristianesimo, - come diceva ignazio silone, “un socialismo senza partito e un cristianesimo senza chiesa” – costruire la nostra identità attraverso scelte precise ed escludenti diveniva un errore da evitare, al più un proposito nascosto o sub-cosciente quanto invece era decisivo rafforzare l’idea secondo cui qualsiasi contesto pubblico fosse identico per noi fatta salva la difesa di un minimo orgoglio di classe. essendo la nostra classe, di estrazione bassa, in baldanzoso ma in fondo insicuro ingresso nella media. e dunque, doppiamente colpevole per aver lasciato qualcuno, e talvolta più di uno, dietro: vite derelitte, esposte al vento di aie nascoste tra colline arretrate, nel senso di ritratte di fronte al mostro della modernità, dell’appennino meridionale. eppure l’uomo adulto impara, o è costretto ad imparare, presto o tardi, che l’immagine di sé costruita nell’adolescenza, il ninnolo intoccabile posato per lustri sulla credenza della sala degli ospiti, non è altro che l’attaccamento inspiegabile ad un fronzolo pur di ritardare l’ingresso nel disordine della vita, in cui non sempre esistono i buoni e i cattivi a tavolino, dove la verità è spesso un caleidoscopio composto dai riflessi di cento occhi, il frastuono fatto dal clamore di cento voci, per non dire degli odori e dell’amaro in gola. l’uomo adulto impara, o è costretto ad imparare, suo malgrado, che la posta in palio non è mai l’avverarsi completo dei sogni della propria adolescenza quanto, e forse enfaticamente, difendere nell’età di mezzo la stessa facoltà di sognare, di progettare la vita, possibilmente con gli altri. le riflessioni di cui sopra vengono dopo che negli ultimi mesi, vicini nati, diversamente da te, e pasciuti, nei quali percepisco la medesima ansia di crescere, mi hanno fatto bersaglio del pietoso giudizio di fuggire codardamente da me stesso, condanna spuntata basta leggere il titolo del blog, vecchio sette anni e sette anni ancora. noi che condividiamo l’infanzia negli ottanta del disfacimento civile, dell’istupidimento collettivo, che due su tre soccombevano agli inflessibili dogmi del consumismo mediatico, nella cornice di un paese impaurito come mai, la cui proiezione geopolitica diveniva l’ombra colta nel momento in cui la fonte luminosa è sopra la testa, dove l’unico insegnamento trasmesso era mai fidarsi, se non dell’immagine a brutto muso di se stessi. la diseducazione di viverci insieme ovvero contro, serrati nell’egoismo del non mi voglio precludere niente, come a dire lasciarsi libera la possibilità di colpire duro il prossimo o di scappare per sempre per non farci mai più i conti, evitare a tutti i costi il conflitto con gli altri, con se stessi, verso la novità di esperienze che sono il riproporsi di logori panorami umani. in luoghi immunizzati dal pericolo della diversità, dell’integrazione del marginale, della convivenza al di là dei conflitti, spazi costruiti per disperdere non la violenza ma l’esprimersi stesso della vita urbana: ricchi vivono tra i ricchi, divertendosi da ricchi, oppressi dal timore di perdere il proprio status, i restanti tutti a tentare di imitarli, a prenotare, invece di fine settimana, una mezz’ora buona nel centro benessere fuori porta ma apparentemente non più fuori portata. nel progressivo depauperamento di contenuto della sfera pubblica dell’esistere, si cotona in maniera ipertrofica il centro centralissimo dell’ego, il mondo degli affetti privatissimi, per cui se cade un meteorite sulla testa sarà colpa dell’occhiolino irridente che un attimo prima ho fatto al cielo. insomma è questo uno sfogo urlato e pasticciato, illogico o smemorato, non perché abbia perso la fiducia o la speranza, ma perché sono consapevole che non ritornerà mai più la sconfinata fiducia o speranza di anni fa, ché l’umanità, a dirla in breve, se si salverà sarà ad opera di minoranze a favore di minoranze, non per l’attuarsi di un’ideologia messianica ma per migliaia di limitate opere di buona volontà. realizzate per lasciare un mondo un granello migliore a chi poi verrà.
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14.6.11
con quella faccia (sempre) un po' così
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10.6.11
mi sento fortunato
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6.6.11
la storia fatta con i sentimenti
nel cuore dei balcani leggiamo in controluce la nostra storia, recente o perenne, di disgregazione di una società che lì ha portato una guerra sanguinosa e a divisioni laceranti, qui sembrerebbe non produrre nulla se non un'impressionante trasformazione dei nostri corpi – altrove leggi mutazione antropologica – perché evidentemente noi la violenza la somatizziamo.
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1.6.11
24.5.11
lo stato italiano
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17.5.11
sono arrivati i marxiani
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16.5.11
11.5.11
morale del familismo immorale
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10.5.11
ragazzi in gambia
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8.5.11
latin over
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resisti dera'a
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2.5.11
troppo forte, incredibilmente vicino
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26.4.11
la cava del camorrista di fronte
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20.4.11
noi sud
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14.4.11
bisaccia addosso
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10.4.11
goodbye baiano
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8.4.11
il civil servant
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31.3.11
la fine della blogosfera italiana
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27.3.11
lo sprawl a roma
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26.3.11
i bui recessi della centrale idroelettrica
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23.3.11
aria di rivoluzione
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22.3.11
gheddafi: il figlio di preziosi
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20.3.11
un poeta di nome manolo calzati
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16.3.11
15.3.11
decalogo, a uso personale, di sentimenti morali
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13.3.11
cantonata scanzonata
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amor vacui
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poesiola delle sette ed un quarto
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27.2.11
sul napoletano errante
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26.2.11
via del casale galvani
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25.2.11
inspirare, ispirare
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22.2.11
grammar paradox
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14.2.11
del buonismo (indistinto)
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la libertà è una parola nel vento
il liberalismo, come movimento di idee da cui originano in europa e poi si diffondono nel mondo le attuali forme di democrazia, si impone a partire dalla seconda metà del seicento, in inghilterra, grazie a pensatori come giovanni locke, con opere quali due trattati sul governo (1690), in cui si contesta l’assolutismo del monarca, i suoi pretesi diritti (divini) a governare, mentre quegli stessi diritti (naturali) si reclamano per tutti gli uomini (il popolo), in particolare per il ceto borghese: sostituire la vita di corte con il parlamento. l’esistenza di una forma di governo democratica garantisce la salvaguardia dei diritti fondamentali: di pensiero e parola ed espressione, di uguaglianza, di giustizia, di religione.
trecento e passa anni dopo, in italia, è urgente abbattere il governo attuale, e accantonare il suo capo, presunto alfiere delle libertà, proprio perché totalmente alieno da qualsiasi nozione di seconda mano di cultura liberale: possiede, nel paese, la quota più cospicua di ricchezza, circostanza che lo accomuna ad un monarca moderno, ed una buona fetta della sua ricchezza gli deriva da un impero mediatico (la televisione, cattiva maestra, potere disumanizzante e potenziale rischio per la democrazia è una tesi di un altro filosofo liberale, carlo popper) che utilizza, fin dal primo giorno della discesa in campo, per fini politici e dunque di censura dell’avversario.
infine ama riprodurre nelle sue regge la vita di corte, con giovani donne, gratificate da doni milionari, e talvolta da cariche pubbliche così come accadeva per i privilegi concessi ai nobili delle passate monarchie. dunque un passaggio dalla nobiltà di sangue alla nobiltà da fiction televisiva. dunque, benché ciò che pensa sulla giustizia sia indicativo della sua concezione della democrazia e le pendenze giudiziarie che incombono sul suo capo, qualunque ne sia l’esito, rivelatrici del suo rapporto per lo meno spregiudicato con la legge, ciò che lo dovrebbe condannare in perpetuo all’irrilevanza politica è l’assoluta incompatibilità della sua figura con il liberalismo.
un potere assoluto che invece di discendere da dio, proviene dalla tv.
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12.2.11
la cura del sé
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5.2.11
qualcosa per l'introversione
per rifornirsi di sostanze che possano aiutarle
anche soltanto a chiacchierare
nel viaggio di ritorno
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18.1.11
duemilasettecento anni o poco più di ruby
viviamo in un paese che è in grave depressione perché non accetta di morire
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20.12.10
tolstoj alla feltrinelli di viale libia
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17.12.10
via cave di pietralata sans papier
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15.12.10
appunti su un martedì
un uomo che si raffigura servitore di stato, indebitamente incravattato per un colloquio di lavoro in una società parapubblica, nel trambusto di porta pia sfoglia numeri anni cinquanta de “il borghese”, settimanale fondato e diretto da leo longanesi, fortemente critico dell’allora partitocrazia. partitocrazia icasticamente rappresentata, nelle pagine centrali del settimanale, da gigantografie di politici, cardinali, signorine di compagnia, colti di sorpresa, a confabulare nei palazzi del potere, a gozzovigliare nelle ville abusive sull’appia, l’occhio curioso che scruta e svela il poco del potere, operazione culturale negli ultimi anni fruttuosamente recuperata da dagospia. rumori di elicotteri, sirene della polizia, d’ambulanze, slogan ritmati dei cortei di protesta che giungono smorzati.
bambini in fila marciano ordinati a piazza barberini, si specchiano nell’acqua della fontana del tritone, realizzata da bernini, indicano i quattro delfini, ammirano la traiettoria dell’acqua che cade, mentre le maestre intonano le canzoni di natale, tocca farle imparare a memoria nei pochi giorni di scuola che restano. il cinema è aperto per proiezioni su prenotazione anche di mattina, telefonare orario pasti. turisti australiani s’allontanano frettolosamente dal centro e scrutano interrogativi i passanti per capire dalla faccia chi possa dare agevolmente informazioni in inglese.
là dove via del corso sbuca su piazza venezia, in quello spazio che sulle mappe geografiche viene indicato come il centro del centro di roma, blindati della guardia di finanza impediscono di passare. un giovane finanziere di mesagne impugna stretto il suo scudo trasparente che riflette l’ansia in cui è stretto. il giorno prima, al telefono, la madre anziana gli ha chiesto quando ritorna a casa per le feste natalizie e lui non ha saputo rispondere, perché non sa più tornare da quando ha deciso di andare via. il collega più anziano che ha vicino lo scuote dall’intontimento e gli intima di respingere il flusso continuo di curiosi che chiede di passare, grida, per piazza venezia girare a destra e poi di nuovo a destra, ma cambiare direzione è meglio.
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8.12.10
il paradosso che ci scortica
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bozzo di programma
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7.12.10
cartoline dagli orti
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6.12.10
la detroit d'irpinia
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1.12.10
ragioni contrapposte
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20.11.10
il sistema incatena piano
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13.11.10
4.11.10
now how?
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2.11.10
il mare di cairano
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29.10.10
tutto a post
sono l’inquilino in abito grigio che spalanca premuroso la porta dell’ascensore agli anziani vicini che chiedono se ancora studio e si meravigliano del lavoro, perché tanto giovane mentre nello specchio sfavilla un ciuffo di capelli bianchi. sono il passante dall’andatura stracca che solleva polvere e foglie secche lungo il percorso che conduce alla fermata metro più periferica del mondo, tra capannoni di meccanici sfaccendati e merli che si posano placidi sulle carcasse delle automobili di fronte. sono l’impiegato tipo che attraversa sicuro il corridoio asettico dell’ufficio verso la stanza del capo a raccogliere i complimenti per un anno nel complesso andato male ma nel quale vanno premiati i meritevoli. sono ostaggio di una libertà incondizionata nell’evo dell’irresponsabilità assoluta in cui finisci per pensare che la morale sia salva se quando stai spezzando la vita di chi ti sta accanto, hai la grazia di compatirlo.
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28.10.10
lo sfascio delle finanze
joseph alois schumpeter
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23.10.10
il silenzio che contiene?
come da quando non scrivo più
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7.10.10
babel tiburtina
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vita promesse (non) mantenute
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sfoglie di cipolla
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l'uovo a una dimensione
è svaporato presto il gusto di raccontare, giorno dopo giorno, il poco che accade. il tutto è dovuto, forse, ad un’emotività bizzosa, spaurita nel bel mezzo del freddo artico del web. su cui si trascorre tempo sottratto al dissodamento sistematico dei cuori. d’altra parte senza si è tagliati fuori dal flusso d’informazioni, dalla pioggia di immagini sui fumogeni che colpiscono i leader sindacali; senza, esci fuori e trovi il deserto urbano, inframezzato da oasi il cui accesso è riservato agli uomini col fiore in bocca.
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squilibrato
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avellino - rocchetta sant'antonio
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bureau veritas
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teledurazzo
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31.8.10
l'importanza del lego
la strada è ancora poco trafficata, dunque silenziosa, si potrebbe restare a letto se non fosse per il lavorio dannato delle zanzare, voraci di sangue dolce, tesi però smentita da un servizio del telegiornale, a sentire la sarta dalla parrucca color argento. si potrebbe restare a letto perché tanto in ufficio non c’è nulla da fare, se non contare le auto in transito sulla colombo, i pezzi dell’impalcatura che riveste il palazzo, le sirene delle ambulanze. certo si potrebbero sempre gonfiare le storie delle vacanze, raccontare delle donne di due metri e mezzo, dai seni miracolosi, scoperte in un paesino sperduto del congo, delle bellezze dei classici, cristallini, mari del sud, solcati da un cataramano noleggiato a civitavecchia, costato un altro tipo di bellezza ma lasciamo stare. ma tutto sommato si evita perché siamo troppo lontani l’uno dall’altro, cento stanze (di cui la metà vuote) e un corridoio di due chilometri. eppure potrebbe non dipendere dalla distanza quanto dalla noia, fissiamo rapiti lo schermo del portatile da cui attendiamo sgorghi sapienza. la mia proposta di utilizzare una delle cinquanta stanza vuote per il lego è stata subito rigettata dal personale.
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30.8.10
deflussi
non esiste evento estivo più fotografato, dagli artisti in erba dell’immagine, che girovagano forsennatamente per l’emiciclo per cogliere l’attimo e intanto si premurano di spiegare ai malcapitati che i loro aggeggi ottici sono composti di pezzi semplici, semplici da aggiustare. intorno cresce e s’annusa la nuova classe creativa locale, tutte le città con ambizioni di esserlo ne hanno una. d’altra parte il lavoro gratificante o è creativo o non è, forse perché scomparsa è l’idea che gratificante possa essere il tempo liberato dal lavoro, fuori in città, fuori dalla città. la musica elettronica a volte è brusio meccanico di sottofondo, altre volte esplode in ritmi sincopati, addolciti dalla linea armonica di una chitarra. le luci colorate accecano, non è peccato offrire le spalle ai d.j., non ballare. sulle balle di fieno coppie stravaccate sparlano tirando una sigaretta dopo l’altra senza poi accendere la miccia sotto le gambe. i più assorti, o probabilmente chi serba una qualche malinconia, si affacciano sulla terrazza e ne vedono una seconda, non calpestabile, frutto dell’architettura anarchica del teatro, che copre in parte i ruderi del castello longobardo di fronte. dal cui cantiere prorompe una scala di metallo che annichilisce e rinvia a data da destinarsi il problema di come utilizzare lo spazio, la piazza che ne esce. eppure la migliore installazione del festival sulla cultura digitale resta la gru biancorossa del castello. bastavano un paio di luci ad intermittenza, qualche movimento pure simulato da un gioco di luci, ed ecco perfettamente espresso il concetto di interazione, non con i corpi e i suoni delle persone, che si dimenano, che urlano, tridimensionali ma inautentici perché mai come ora consapevoli del loro impatto visivo, quanto l'interazione con questa terra: ricostruita daccapo ma con errori, digitali, o zero o uno. già domani quella stessa gru si metterà all’opera: pizzicherà uno qualsiasi dei partecipanti e lo catapulterà oltre la linea di confine delle colline. dopo flussi, deflussi.
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26.8.10
diecimila giorni
di grazia e di tremori
di un’ansia sotterranea che genera sudori
per un bambino che brucia sterpi
nel sentiero stretto che conduce ad una fonte
in una frazione di mondo
barbara quanto basta da non potersi mimetizzare
erano giochi solitari o ammucchiate di pallone
mentre telekabul crollava e giochi senza frontiere
non superava i parametri di maastricht
l’inno delle medie non suonava bene
quanto gli amici della cassettina
nel progetto rivoluzionario di una radio di quartiere
poi venne il liceo e i rigidi protocolli della città
dei dottori, degli avvocati, dei segretari di partiti mai nati
delle giovani donne truccate
e di una via di scampo dall’intruppamento
salvezza e tormento
verità o infingimento
non ci fu il tempo giusto per appurarlo
perduto nell’innamoramento
e riemerso nella capitale smisurata
a scansare, di nuovo, altri modi alieni
esasperate convinzioni dell’ultima ora
ragioni che non ammettevano dissensi
fino ad oggi
alla società spappolata
indecifrabile
perché i pesci non si muovono in branchi
preferiscono mischiarsi in un prisma di colori
o nuotare solitari
verso l’abisso del mare
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4.8.10
petrolnocella
s'inaugurano nuovi parchi urbani ma è complesso demolire le case diroccate circostanti. l’assessore all’urbanistica è stato da poco rimpiazzato, l’ordine degli architetti è in fermento, ma nessuno crede veramente sia quella la delega pensante per il futuro, piuttosto quella pesante. nella gente che incontri, mai si discute di futuro, solo di quando eravamo giovani e belli, si giocava al campetto delle palazzine e colpire i legni era un dolore al petto. ma forse questo, e il resto pure, già l’ho scritto. il corso pedonale è talmente lungo che si strascicano i passi che è un piacere e i vestiti-poveramente progressivamente scompaiono alla vista. si continua a parlare a non finire, eppure qualcosa si è perso perché ora non parliamo di noi ma al massimo di qualcosa che oscuramente incombe. e non si tratta della scomparsa dei de mita. sulla variante, un sacchetto dell’immondizia viene abbandonato da un cane. la linea della funicolare, illuminata, nella notte rende un favore a chi intende misurare con le dita l’altezza del monte. il cartellone del ferragosto è una lenzuolata, soddisfa tutti i gusti ma non ne mobilita di nuovi. è lunga, troppo lunga la città, da una rotatoria all’altra chilometri, di una sola fila di case. troppa è la benzina che s’impegna, bisognerebbe ricavarla dalle nocelle. chissà che il metodo non aiuti a riformare la chimica dell’aria, tanto buona a respirarsi, ma che poi ripetutamente t’incita, scappa, scappa dalla cappa e non voltarti indietro.
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