29.10.09

mammavellino

negli anni novanta io me ne andai,
come oggi i ragazzi vanno in cina,
vanno via, anch’io me ne andai nauseato,
stanco da questa avellino del dopo sisma,
io allora a vent’anni, mi trovavo di fronte a questa situazione,
e andai via da questa avellino anni novanta.

e me andavo da quella avellino addormentata,
da quella avellino pettegola, conformista, democristiana,
quella avellino del ci conosciamo tutti, del “a chi appartene?”,
quella avellino delle pizzerie, delle vinerie, dei salettabacchi, dei fruttivendoli,
quella avellino delle nocelle, delle castagne, del musso, delle pizze co l’ereva, senza l’ereva,
delle mozzarelle di bufala, delle coccetelle,

me andavo da quella avellino degli ambulanti, dei parcheggiatori,
dei mercati, dei mercatoni, degli imbrogli, delle approssimazioni,
degli appuntamenti ai quali non si arriva mai puntuali,
dei pagamenti che non vengono effettuati, dei fallimenti,
quella avellino dei maestri elementari, degli impiegati comunali, provinciali, dell’alto calore
quella avellino dove le domande erano sempre già chiuse,
dove ci voleva ‘na botta, la Raccomandazione

me andavo da quella avellino isola felice dalla camorra,
del riciclaggio, della monnezza, del traffico,
quella avellino della variante e della bonatti, della ricostruzione mai terminata,
delle case fuori sito, in cattivo stato,
quella avellino dei politici, dei medici, dei primari, dei lupi, dei licantropi

me andavo da quella avellino delle ville in collina,
la avellino di piazza garibaldi, di via piave, di borgo ferrovia,
quella moderna, quella rurale, quella di giorno, quella di notte,
quella asfittica, la avellino dei platani, con il cancro, senza cancro,
l’avellino di parco abate, della bottega, del calcio come droga
l’avellino di noi con loro,
l’avellino eterno democristiana di de mita

me andavo da quella avellino che non ci invidiava nessuno,
l’avellino città giardino, del santuario di montevergine, della collina della terra, del victor hugo,
del castello, del teatro, del carcere, della caserma, del macello di avellino,
quella avellino che piove sempre, estate e inverno,
quella avellino ch’è meglio di napoli

me andavo da quella avellino dove la gente si rinchiudeva nelle case,
quella avellino fetente e impiegatizia, delle pippe cerebrali,
dei sullo, di de vito, di gargani, di bianco, di mancino, di d’ercole, del sindaco di nunno,
quell’avellino periferia di napoli

me andavo da quella avellino della banca popolare d’avellino alla collina dei liguorini,
di …chi cazzo ne so, del corso vittorio emanuele, di via francesco tedesco, di via nappi,
quella avellino che “a tieni na sigaretta?”, “a tieni mille lire…pe no paio e cazettini?”,
quella avellino della legge del partenio, delle luminarie al ferragosto,
quella avellino dove le fontane di piazza libertà non hanno mai bagnato nessuno,
me n’andavo da quella avellino di merda!

mamma avellino! addio.

20.10.09

sociologia spicciola

la tomaia della sneaker destra, da tempo raggrinzita, inizia a squarciarsi all’attaccatura della gomma. finiranno nei cassonetti per vestiti usati saccheggiati da romaneschi armati di spuntone. noi siamo quelli che temono di non poter rimpiazzare il solito modello di scarpe. quelli che rimpiangono i voli sky europe durante i quali ci tormentiamo con la cintura di sicurezza ben stretta. alle feste popolari ci apriamo a fatica tra la folla che spensierata tracanna e sta lì per vedere altra gente tracannare mentre artisti di strada sono scoraggiati dai sussulti di attenzione che riescono a strappare. noi siamo quelli che amiamo ritornare per parlare male pur di non mettere in discussione il nostro discutibile modo di stare insieme da soli. che poi è un modo di non far mai niente e quando qualcosa, senza dare a vedere. noi siamo quelli in difficoltà in questo torno di tempo italiano, in definitiva persone che osservano in un posto in cui tutti desiderano essere osservati.

13.10.09

le ragioni dell'intestino

di continuo ghermiti dai marosi della menzogna più spudorata, temiamo di perdere definitivamente il senno, la capacità di riconoscere il giusto dal cattivo, il gusto di ragionare nel paese che perciò è già dittatura. scomodi in situazioni che nella normalità non avrebbero dovuto essere, in discorsi che non ci sarebbero stati, in incontri che non sarebbero avvenuti. con un disfattismo che colora solo i nostri scritti, tra l’altro rarefatti come i pensieri, perché in pubblico ostentiamo disimpegno, perché il pubblico non è sempre adatto e quando lo è magari distratto da certi recenti e penosi contorcimenti dell’io. soffriamo poi perché siamo consapevoli che lo strazio di questi mesi non produce rivoluzioni perché alcune sofferenze sono soltanto esteriori.


p.s. è probabile che il tono dei miei post non cambi fino al giorno della caduta del regime di B.