18.12.11

la crisi del settimo anno. di blog

sento il bisogno di vivere una città
che contiene i miei limiti
e non marginalizza i miei desideri

25.11.11

love crunch

quello che provoca la gelosia è sfocare uno sguardo già miope
tormentando notti già rumorose in un catino di casa
troppo calde per un inverno che anche lui non è più lo stesso
quando andavamo al mare era bello
quando guardavamo il lago, meglio
la città è un dedalo di strade che rimanda i ricordi di ieri
e si finisce per scattare fotografie in posti prima del tutto anonimi
per ricordi ora solo tuoi
e intorno mille coppie che nascono
mill’altre che scoppiano
le lacrime inspiegabilmente sempre pronte ad uscire
e a raccoglierle una manica sdrucita
chiudere cuore per manutenzione
quando viaggiavamo in auto era bello
quando solcavamo il fiume, meglio

20.11.11

sempre sul camminare

la vita scorre lungo questi passi corti, svelti
di un pedestrianesimo che è l'unica religione praticata,
misconosciuta nell'urbe slabbrata, gonfia di fumi di scappamento
e degli umori atrabiliari di uomini con soli arti a motore,
noi resici impresentabili nell'appena, dicono, trascorso ventennio
ci pareva per difenderci meglio dall'aggressività 
di quanto di peggio producesse l'epoca
senza per questo conoscere quanto di saporito offrisse l'esistenza;
noi afflitti da un autunno tricologico
che sempre temiamo possa essere il definitivo
e invece è l'unica cosa graduale che ci capiti di registrare nella nostra testa;
noi clown senza doppi interessi
per debito di riconoscenza verso la fortuna di vivere liberi
forse dovremmo imparare a rimanere più spesso seri
e a ritenere che la nostra faccia sia più trasparente 
di quanto immaginiamo

15.11.11

e lo dico da uomo di sinistra

nella serata del presunto congedo dal ventennio berlusconiano, l'epilogo della seconda repubblica ovvero del riproporsi in nuove forme dell'eterna anomalia italiana, non tutti hanno saputo festeggiare. in particolare, quanti ancora non si spiegano completamente le cause profonde del fenomeno e dunque non sono ancora capaci di archiviarlo definitivamente. al di là delle sue caratteristiche prettamente biopolitiche, di maschera italiota, con precise ascendenze nella commedia dell'arte, o nella commedia cinematografica degli anni cinquanta, in cui si caricaturizza il cumenda milanese vittima delle pastoie burocratiche romane, berlusconi è infatti la rappresentazione in leadership politica più clamorosa e becera di una serie di istanze socio-culturali che hanno guadagnato nell'ultimo quarantennio, nelle democrazie occidentali e non, l'egemonia: effetto più evidente ne è il progressivo arretramento della politica politicante di fronte alle scorribande della finanza in un contesto di crescente consenso, o assuefazione?, all'aumento delle disparità di reddito e/o divario tra i ceti sociali. nell'occidente, le punte più avanzate di questa trasformazione si sono avute nei due paesi capofila del liberomercato, stati uniti e gran bretagna, e proprio in italia, qui per la deficienza dell'unico possibile contrafforte, lo stato. un'ottica meno paesana/mediatica del fenomeno berlusconi, dunque, non trascura le peculiarità nefaste della sua avventura politica - dal populismo esasperato, al clima perenne di scontro con il nemico (giudici e le istituzioni tutte), dalla strenua difesa degli interessi personali a palazzo, altrove leggi conflitto d'interessi all'istupidimento di massa assicurato dalle sue televisioni - ma è solo un umile tentativo di inquadrare i decenni del suo potere, i cui strascichi tra l'altro dureranno per anni, in una prospettiva più ampia, cercando di evidenziare elementi di similarità/contiguità con esperienze analoghe di paesi vicini. per farla breve, la tesi che si cerca di supportare è che il berlusconismo è l'epitome italiana di un quarantennio di progressiva finanziarizzazione dell'economia e della società, del forte consenso, trasversale a tutti i ceti sociali, all'idea di ricchezza come unico valore praticabile, della conseguente morte/personalizzazione della vita politica, dell'incredibile distruzione di capitale civico degli ultimi decenni. portando alle estreme conseguenze tale ragionamento, si può opporre tutto questo non alla leadership di berlusconi ma a quella antecedente della tatcher, di reagan, di bush padre, di blair, finanche di eltsin e, per arrivare ai giorni nostri, di sarkozy. la soluzione è la rinascita della politica dalle comunità, dalla condivisione/gestione con il prossimo dei beni comuni, dalla ricostruzione della coesione sociale. il vero programma della sinistra, il vero debito storico incontrollato e incontrollabile.


14.11.11

quando diventerai partner

l'istinto di desistere dall'arrovellarsi sulle ragioni del mancato spirito di collaborazione, del veto preventivo alle opinioni eccentriche, apparentemente fuori luogo, di sicuro lo sono per la vocazione anarchica che le ispirano, nella recessione che non è finanziaria ma emotiva, profondamente legata a quanto chiediamo orgogliosi a noi stessi e non agli altri, causata dall'ipertrofia dell'ego, sfuggito in cielo come un palloncino nella rivoluzione sessantottina proclamata da ciascuno contro le presunte imposizioni del prossimo, allora meglio neutralizzarlo. una buona canzone placa gli effetti di una sconfitta generazionale leggibile nelle nostre espressioni presuntuose, cretine, minimizzanti, sconfitta che elaboriamo in camere separate, anti-rumore, caratterizzate dall'odore insistente di vaniglia. a vivere questa vita menzognera sempre in continuo circolo su carrozze scialuppe di uomini in fuga dal naufragio di sé stessi e dall'oblio di una memoria di cui abbiamo definitivamente perduto la chiave, ogni residuo appiglio, che pesa come un macigno in un mondo divenuto di senso ultimo plurale, abituati com'eravamo, da ultimi come siamo sempre stati, ad avere certezze quantomeno sui non verificabili capisaldi della fede, sulle ricompense eterne di un dio altissimo; e invece senza niente, quale messaggio o testimone trasmetteremo ai figli eventuali, forse inibiti sul nascere da un anticoncezionale morale? e certamente pure dalla lunga assenza a sé stessi, coartati in battaglie secondarie per l'attenzione a lavoro dei capi delle finzioni, tragici epigoni di capitani di ventura scaraventati in culo del mondo a cannoneggiare un nemico costruito per convenienze di politica interna. in questi venerdì difettosi in cui roma è inferno laterale, di motori euro 4 in lentissima processione, appenderemmo volentieri al chiodo della banchina della stazione l'abito da sera e ogni residua velleità borghese, serrati in un ufficio lazzaretto che non ispira genio ma solo idee di vecchio conio. perché con i sorrisi ed il sarcasmo non si è invertita mai la direzione di una storia, il lavoro è prima di tutto un diritto alla dignità personale e invece si trasforma nell'arte di comunicare un concetto di certo confuso ma disegnato bene. nell'azienda l'organizzazione mira alla formazione di n-duce che spadroneggiano su n-mila poveri di cerebro, in una concitazione di battiti cardiaci mai tanto gratuita; ogni decisione si assume per rinviare la decisione finale e capitale e salomonica ad un tavolo di illuminati ispirati possessori del capitale tempo che non si riunirà mai per un improvviso impegno estetico della segretaria che lo deve organizzare, noi che si diventa grigi come i tetti di parigi, sentiamo sulle spalle il peso degli anni che sprechiamo a costruire cartelloni pubblicitari che spandono ovvietà a clienti irretiti dal valore della nostra credibilità di riflesso… no, non è proprio un bel periodo a lavoro!

9.11.11

la legge dello scappato di casa

il tasso di democrazia di un paese è inversamente proporzionale
alla distanza dall'ingresso della stazione 
dei binari dei treni più frequentati dai pendolari

8.11.11

e lo chiamano autunno

oltre ad affrontare il problema dell'enorme debito pubblico accumulato, 
il paese deve risolvere la riaffiorante paura innescata dai temporali

7.11.11

i frattali

berlusconi nell'attimo in cui si trova ad affrontare la fase più drammatica del suo percorso politico, il tragico epilogo, che dunque non solo minaccia la sopravvivenza di un governo ma il modo con cui restituisce le chiavi del paese dopo un ventennio di strapotere, trova il tempo di volare a milano per discutere con i figli ed il presidente mediaset, fedele confalonieri, di "questioni private", come dicono gli informati. è di questo clamoroso capovolgimento di priorità, di questa macroscopica ignoranza istituzionale, di questa orrenda commistione pubblico-privato, dopotutto evidente fin dall'inizio della sua personale avventura politica, che è inscritto il lasciapassare con cui si affida al giudizio della Storia.

5.11.11

le memorie di esopo

il marciapiede è solcato da profonde impronte di mammuth e così preferiamo percorrere la strada verso il centro della carreggiata. saltellando sulla linea tratteggiata che la divide e ripiegando ai bordi laterali al delinearsi di un auto all’orizzonte. quando siamo poco lesti a spostarci o solo per il gusto di spaventarci, gli automobilisti accelerano a vista d’occhio e quando ad un passo c’imprecano contro o strombazzano con il clacson. probabilmente manifestano in questo modo l’irritazione per la nostra plateale mancanza di senso della posizione, contravvenendo a loro volta ad un paio di norme del codice della strada. proseguiamo storditi ma al contempo sicuri dell’assenza di morale della storia che stiamo vivendo.

3.10.11

un giorno di sciopero alla stazione ostiense

l'italia è un addetto alle pulizie che lava i vetri di una scala mobile non in funzione da diversi anni

28.9.11

da quando fresta non gioca più

la rivoluzione copernicana delle pubbliche amministrazioni, nell’interpretazione paventata dal dirigente comunale, consisterebbe nella trasformazione dell’ente pubblico da erogatore generoso di servizi a tagliatore di costi, di posti e di pasti. è evidente che non crede nel nuovo imperativo e che a mal partito  subirebbe il cambiamento, come sempre ha fatto, con l’immobilità propria della sfinge egizia. si espone in questa disamina perché mi reputa un partigiano del taglio dei costi. evidentemente il mio lavoro non è altro che esercitarsi in un gioco di artifizi. io, se esiste un io, che poco prima ero rimasto sconcertato dalla scomparsa nel bar tabacchi delle schedine del totocalcio. con il vecchio barista che giurava che la ragione risalirebbe alla scomparsa definitiva della domenica.

27.9.11

lettere da una corriera

come che sia, non ci potranno impedire di raggiungere ancora una volta roma a bordo di bestioni marchio irisbus, per i prossimi cinquant'anni, o per quanti ne garantirà un'accurata manutenzione, come le cadillac americane dell'avana, come i bus colorati del kashmir, e simbolicamente invadere roma, immagine sbiadita di ex capitale nazionale mentre per la globalizzazione i nostri futuri sentimenti saranno prodotti made in china...

24.8.11

present continuous

nell'asfissia di un calore familiare degenerato,
nell'incertezza con cui curiamo i nostri rapporti umani fragilissimi,
nell'assenza di rispetto per il prossimo cui neghiamo i nostri occhi,
nei muri emotivi che nottetempo erigiamo,
nei silenzi impenetrabili che rumorosamente opponiamo,
nelle pose d'accatto che solo in presenza altrui assumiamo,
nella memoria condivisa che ad uso e consumo proprio oltraggiamo,
per l'irrefrenabile desiderio di scappare dalla terra rimossa verso una non meglio precisata terra promessa,
per l'incurabile presunzione di essere migliori dei padri ed al contempo inadatti a generare figli,
per la pomposità dei nostri annunci sparati in aria pur di non misurarli con le resistenze della terra,
nell'egomania perniciosa che muta ogni nostra discussione in risentimento personale,
per il gusto di ritagliarci un pezzo di verità da non condividere con nessuno,
per tutto questo ed altro ancora la nostra generazione sta perdendo

20.8.11

sottotony

prima persi il passato
per una continua mal interpretazione degli avvenimenti,
per lo sfinimento dei luoghi della memoria,
per l'accanimento altrui sui dettagli della storia.
poi non seppi più il mio nome.
eppure continuavano a chiedere
chi fossi
ed il perché delle mie azioni.
difficile credere che
non c'era calcolo nel mio oblio
quanto la messa in pratica
di una necessaria tecnica di sopravvivenza.

29.7.11

il canto degli irpini

fratelli d'irpinia
l'irpinia s'è desta,
del crine del lupo
s'è cinta la testa.
dov'è la salvezza?
che giunga munifica,
ché schiava di napoli
iddio la creò.
stringiamci a coorte
siam pronti alla morte
l'irpinia chiamò.

noi siamo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
raccolgaci un'unica
bandiera, una speme:
di batterci insieme
già l'ora suonò.
stringiamci a coorte
siam pronti alla morte
l'irpinia chiamò.

uniamoci, amiamoci,
l'unione, e l'amore
rivelano ai popoli
le vie del signore;
giuriamo far libero
il suolo natìo
dalla mondezza costiera
uniti per dio
chi vincer ci può?
stringiamci a coorte
siam pronti alla morte
l'irpinia chiamò.

dalla baronia al terminio
dovunque è lo stretto di balba,
ogn'uom di gaio ponzio telesino
ha lo spirito, ha il genio,
i bimbi d'irpinia
si chiaman uagliuni,
il grido d'ogni madre
al pranzo chiamò.
stringiamci a coorte
siam pronti alla morte
l'irpinia chiamò.

son giunchi che piegano
le spade vendute:
già lo stemma di napoli
medaglie ha perdute.
il sangue d'irpinia,
il sangue sannita,
bevé, col pontificio,
ma il cor le bruciò.
stringiamci a coorte
siam pronti alla sorte
l'irpinia chiamò

27.6.11

l'illuminazione del vallatrone

lo stato d'ansia che ci comprime
è direttamente proporzionale all'ambiziosità
dei nostri sogni irrealizzati

22.6.11

lettera ad un amico mai nato

l’idea di destinare una lettera a qualcuno che non esiste, se non nello spazio intimo compreso tra il sé e il fuori da sé, è un passo compiuto verso la follia, alla maniera del personaggio di saul bellow, herzog, che scrive ossessivamente a dio o al presidente dell’america, perché non riesce ad accettare se stesso. eppure è un atto necessario per sfidare la nostra identità confusa, intrecciata alla nostra epoca confusionaria, malata. per anni, abbiamo covato tutto dentro, fedeli ad un’immagine di noi edificata nell’adolescenza, avvinti al senso di colpa che ne è derivato, per la mancanza di fatti concreti. immagine in base alla quale tutti gli uomini sono uguali, il genio e l’abbrutito. tutti hanno pari dignità; tutti, a confronto con il bisogno di trovare risposta al dubbio estremo di una vita, la morte eterna o l’aldilà, ammutoliscono o straparlano e spesso può accadere che proprio i dotti zittiscano mentre gli stolti siano infusi dal dono dello spirito santo, la parola di dio. in ragione di una sorta di egualitarismo ideologico, un miscuglio di lacerti di socialismo e cristianesimo, - come diceva ignazio silone, “un socialismo senza partito e un cristianesimo senza chiesa” – costruire la nostra identità attraverso scelte precise ed escludenti diveniva un errore da evitare, al più un proposito nascosto o sub-cosciente quanto invece era decisivo rafforzare l’idea secondo cui qualsiasi contesto pubblico fosse identico per noi fatta salva la difesa di un minimo orgoglio di classe. essendo la nostra classe, di estrazione bassa, in baldanzoso ma in fondo insicuro ingresso nella media. e dunque, doppiamente colpevole per aver lasciato qualcuno, e talvolta più di uno, dietro: vite derelitte, esposte al vento di aie nascoste tra colline arretrate, nel senso di ritratte di fronte al mostro della modernità, dell’appennino meridionale. eppure l’uomo adulto impara, o è costretto ad imparare, presto o tardi, che l’immagine di sé costruita nell’adolescenza, il ninnolo intoccabile posato per lustri sulla credenza della sala degli ospiti, non è altro che l’attaccamento inspiegabile ad un fronzolo pur di ritardare l’ingresso nel disordine della vita, in cui non sempre esistono i buoni e i cattivi a tavolino, dove la verità è spesso un caleidoscopio composto dai riflessi di cento occhi, il frastuono fatto dal clamore di cento voci, per non dire degli odori e dell’amaro in gola. l’uomo adulto impara, o è costretto ad imparare, suo malgrado, che la posta in palio non è mai l’avverarsi completo dei sogni della propria adolescenza quanto, e forse enfaticamente, difendere nell’età di mezzo la stessa facoltà di sognare, di progettare la vita, possibilmente con gli altri. le riflessioni di cui sopra vengono dopo che negli ultimi mesi, vicini nati, diversamente da te, e pasciuti, nei quali percepisco la medesima ansia di crescere, mi hanno fatto bersaglio del pietoso giudizio di fuggire codardamente da me stesso, condanna spuntata basta leggere il titolo del blog, vecchio sette anni e sette anni ancora. noi che condividiamo l’infanzia negli ottanta del disfacimento civile, dell’istupidimento collettivo, che due su tre soccombevano agli inflessibili dogmi del consumismo mediatico, nella cornice di un paese impaurito come mai, la cui proiezione geopolitica diveniva l’ombra colta nel momento in cui la fonte luminosa è sopra la testa, dove l’unico insegnamento trasmesso era mai fidarsi, se non dell’immagine a brutto muso di se stessi. la diseducazione di viverci insieme ovvero contro, serrati nell’egoismo del non mi voglio precludere niente, come a dire lasciarsi libera la possibilità di colpire duro il prossimo o di scappare per sempre per non farci mai più i conti, evitare a tutti i costi il conflitto con gli altri, con se stessi, verso la novità di esperienze che sono il riproporsi di logori panorami umani. in luoghi immunizzati dal pericolo della diversità, dell’integrazione del marginale, della convivenza al di là dei conflitti, spazi costruiti per disperdere non la violenza ma l’esprimersi stesso della vita urbana: ricchi vivono tra i ricchi, divertendosi da ricchi, oppressi dal timore di perdere il proprio status, i restanti tutti a tentare di imitarli, a prenotare, invece di fine settimana, una mezz’ora buona nel centro benessere fuori porta ma apparentemente non più fuori portata. nel progressivo depauperamento di contenuto della sfera pubblica dell’esistere, si cotona in maniera ipertrofica il centro centralissimo dell’ego, il mondo degli affetti privatissimi, per cui se cade un meteorite sulla testa sarà colpa dell’occhiolino irridente che un attimo prima ho fatto al cielo. insomma è questo uno sfogo urlato e pasticciato, illogico o smemorato, non perché abbia perso la fiducia o la speranza, ma perché sono consapevole che non ritornerà mai più la sconfinata fiducia o speranza di anni fa, ché l’umanità, a dirla in breve, se si salverà sarà ad opera di minoranze a favore di minoranze, non per l’attuarsi di un’ideologia messianica ma per migliaia di limitate opere di buona volontà. realizzate per lasciare un mondo un granello migliore a chi poi verrà.

14.6.11

con quella faccia (sempre) un po' così

siamo più impressionati quando il paese cambia a nostro favore
che non il contrario

10.6.11

mi sento fortunato

imbuco le mie lettere nella barra di google
ma non tornano mai le risposte che desideravo
ed è una deriva d'umanità da evadere con i sogni buoni
come la fatica di usare di nuovo le mani

6.6.11

la storia fatta con i sentimenti

nel cuore dei balcani leggiamo in controluce la nostra storia, recente o perenne, di disgregazione di una società che lì ha portato una guerra sanguinosa e a divisioni laceranti, qui sembrerebbe non produrre nulla se non un'impressionante trasformazione dei nostri corpi – altrove leggi mutazione antropologica – perché evidentemente noi la violenza la somatizziamo.

1.6.11

24.5.11

lo stato italiano

invocare una legge che non c'è per spiegarne una mai attuata

17.5.11

sono arrivati i marxiani

in questa transizione turbinosa, interminabile, da una folle epoca di chiusura in se stessi ad una sorretta da una fiducia luminosa nel dopodomani, di rado distinguiamo il corpo malato del paese dal nostro, così che gli orrori del primo segnano in profondità la nostra carne, che diventa un paesaggio sbrindellato dalla furia di costruire, camuffare, invece di conservare l'armonia dell'esistente per imparare ad apprezzare la distanza tra le cose, passando dall'atteggiamento di chi interroga il mondo a quello di chi lo contraffa'... è il capitalismo, bellezza ma non durerà per sempre.

16.5.11

noi crediamo

...che si tornerà a parlare

11.5.11

morale del familismo immorale

la storia della nostra terra, circostanza che al tempo stesso è la nostra tragedia, è scritta o da uomini che trovano il proprio nemico nella propria famiglia e, in un modo o nell'altro, finiscono per soccombervi o da uomini che facendosi forti della propria famiglia ne combattono ferocemente un'altra; in questo caso, le possibilità di successo personale sopravvivono ma sempre a scapito del bene comune.

10.5.11

ragazzi in gambia

morta la politica
ci manca la società
perduto il corpo
ci angoscia la mente

8.5.11

latin over

mi sono smarrito così tanto negli ultimi tempi
che ora lascio inselvatichire intere aree della mia coscienza

5.5.11

resisti dera'a

a luciano manara

all'idea di rimettere la testa sotto la sabbia

2.5.11

troppo forte, incredibilmente vicino

l'abitazione in cui si nascondeva e ha trovato morte osama bin laden assomiglia ad un esterno di casa abusiva calabrese in cui si trascorrevano le ferie estive. nei pomeriggi di calura insopportabile, si era costretti a leggere e ricavare giudizio da romanzi voluminosi, ottocenteschi, o al massimo primonovecenteschi, che più tardi avremmo compreso essere espressione di una cultura in cui lo stato democratico che esegue una sentenza di morte nei confronti di un singolo uomo, pure se ritenuto il demonio in terra, senza che sia celebrato regolare processo, non deve essere considerato uno stato di diritto

26.4.11

la cava del camorrista di fronte

in riva al ruscello capiamo finalmente di essere fatti così (e così)
un tempo volevi scappare di casa, ora non sai se ne avrai mai una
grazie alle cave che punteggiano queste colline hanno edificato
i quartieri abusivi delle città in cui emigriamo, in cui siamo affittuari in nero
negli stessi cantieri lavorava lo zio: una brutta canaglia di pittore
ora sua figlia è entrata nella compagnia delle opere, questione di entrature
un altro cugino è piombato in depressione ma finge sia un mal di testa forte
intanto quanti super santos che volano alto, che sfondano rami secchi
in una woodstock irpina per intima convinzione di pochi
la pizza chiena è rock & roll come gli anni che viviamo
e non ascoltiamo la stessa musica di sempre
quanto scorriamo febbrilmente la playlist dei nostri ridicoli ipod
in cerca di un motivo che possa entrare nella testa del vicino di sedia
riconosciamo i nostri limiti e sotterriamo la penna per mai più usarla
d'ora in poi per chiarirci le idee, ci stenderemo, come gli avi, sotto una cerza

20.4.11

noi sud

o d'emozioni muti o ebbri di gioia
la nostra follia è troppo umana

14.4.11

bisaccia addosso



Caro Arminio
io sono il tuo paese. Ora mi chiamo Bisaccia, ma prima di questo ho avuto altri nomi e c’è stato un tempo in cui non avevo nome. Stavo qui, terra al vento, terra e carne di un perenne sgomento. Vennero alcuni pastori dalle steppe dell’Eurasia. Era un giorno di giugno. Si fermarono qui in silenzio per alcuni millenni. Erano pochi e non divennero mai tanti. La vita allora era diversa, non c’erano recinti, non c’erano proprietà, non c’era ricchezza da accumulare. Raccoglievano erbe, uccidevano le pecore, tessevano e vendevano la lana. Adesso hanno raccolto alcuni pezzi del mio passato. Nel castello c’è la donna, che hanno chiamato principessa, sepolta col suo corredo molti secoli prima che Cristo salisse in croce.

Avevo deciso di raccontarti la mia storia caro Arminio, ma so che dopo un po’ ti annoi. Volevo ringraziarti del tuo scrivere continuamente di me. Lascia stare per un poco però la polvere dell’attualità. Scendi, affonda, vai nelle cantine dei secoli. Vieni a trovarmi nelle vene della terra, ferro e ruggine, lingue morte di serpenti e fiati e bocche di chi parlò vanamente. Vieni a vedere l’ossario che c’è sotto ogni paese, scava, lasciati amare, lasciati trascurare, lasciati ingannare, lascia la colla dei minuti, tu sei nato per soffiare come il vento, sei nato per andare via ogni giorno, vai ti prego, lascia stare queste ombre col muso sporco, questi cancelli, questi cuori a imbuto. Lascia le parole che ogni tanto dici per essere come gli altri miei figli. Io sono il tuo paese e il loro. Io sono il paese di Pinuccio e Peppino, il paese degli scapoli, dei vicoli dove passa solo il vento.
Sorridi ogni tanto a quelli che incontri, sfiorali con gentilezza e poi sparisci, tu non sei un uomo nato qui. Tua madre se n’è accorta subito, per questo ti trattiene, lei sente che non sei suo e tu ti ostini a pensare che non sei di nessuno. Continui a dare più attenzione alle ingiurie che agli affetti. Stai qui non per vivere ma per tenere in vita la tua paura della vita. Te la prendi con me e con il tuo corpo, pensi che siamo la tua prigione e non la finisci mai di lagnarti, non ti basta mai niente. Dillo che non sei dentro di te, dillo a tutti che quello che hai scritto è ancora solo un piccolo esercizio e che ti stai preparando per squarciare il petto a quel vecchio ragno che si chiama Dio. Non chiuderti dentro l’armadio del tuo mal di stomaco, del tuo mangiare per spiare il male, per affondare le farfalle che ti prendono la testa e la fanno volare.

Lo sai che ti guardo, so tutto di te, anche che adesso ti sei fatto crescere la barba e che nella tua casa si è rotta la caldaia dei termosifoni. Mi consola il fatto che ci sei, però non mi piace che combatti la tua impazienza, vorresti farla più piccola, accogliente. Tu non sei fatto per accogliere, per stare fermo ad aspettare. Tu devi scendere in me, ascoltarmi, la tua carne non sa fare altro che ascoltare, è una carne a bocca aperta, il tuo cuore è disteso sulla lingua e il filo di sangue che ti attraversa è felice come un bambino che non è andato a scuola.
Ti ricordi le grandi nevicate dell’infanzia, i passeri, le tagliole che metteva tuo cugino? Lo so che ti piaceva la neve che saliva. Adesso la neve non arriva, viene spalata in cielo, prima di cadere. Adesso c’è questa nebbia vergognosa, i vecchi del centro anziani sono rimasti in cinque, non si vedono galline, non ci sono più i muli, certe sere la piazza è piena di macchine parcheggiate ma in giro non si vede nessuno.

Io sono il tuo paese, sono la somma delle case, sono ogni tegola, ogni scalino, sono ogni gatto, ogni luce sul comodino, sono i vecchi delle vie fredde e cupe, i giovani delle ville sperdute, sono il grano che comincia a crescere, sono la pala eolica, la quaglia, la rondine quando arriva. Sono il freddo che conosci bene e che prima ti piaceva tanto e ora ti fa paura. Ti vedo uscire incappucciato, non entri mai in un bar, non giochi a carte. Hai paura di sederti, senti che quella è una trappola, ma ti sbagli, e sbagli a stare in casa a farti una tisana, a fare colazione con biscotti e camomilla. Vai al bar, beviti un caffè senza paura, passeggia con chi capita, spreca il tuo tempo, fattelo rubare, non averne alcuna cura.

Lo so che sei sempre in ansia, lo so che hai paura di morire. So che scrivi ogni giorno e che adesso non hai problemi a vedere stampati i tuoi libri. Potrei citarti ognuna delle tue poesie. Quando parli di me sembri più ispirato. Quando scrivi dei paesi le tue parole hanno leggerezza e peso. Quando parli d’altro sembra che giri a vuoto. La verità è che mi hai scelto per capire il mondo, la verità è che io sono la tua sposa, tuo fratello, il tuo incubo e la tua speranza. Lo sai, c’è un piacere o un dispiacere dell’abitante verso il suo paese, ma c’è anche un piacere o un dispiacere del paese verso il suo abitante.

Lo so, ho un cattivo carattere. Ogni paese è diverso da un altro, lo hai scritto tu che non ce ne sono due uguali. Anche in questo io mi sento come te, sarà per come sono fatto sotto terra, crepe e argille sciolte. Sarà per questo mio essere in mezzo a tre regioni senza di fatto appartenere a nessuna di esse. Io non sono Campania, né Puglia, né Lucania. Ho un clima da nord Europa. Solo poche case sono girate verso sud. Sono la Bisaccia appoggiata su un cavallo tremante. Niente è fermo in me, sono un paese che naviga nell’argilla con le spine nei fianchi.
Tu sei in me solo da mezzo secolo. Io sono in me da millenni. Ci si stanca pure ad essere un luogo, si perde entusiasmo. Alla fine è sempre un vedere il sole che nasce e muore, alla fine ti senti un pretesto per far girare il cerchio storto delle stagioni. Puoi sentirti come vuoi, sempre qui resti, a prendere freddo e terremoti, a prendere il vento che qui viene pure da sotto. Questa l’ho sentita da te, tu lo chiami il vento del thanatos.

Lo sai che per me è difficile capire dove finisco e dove comincio. Il cielo mi appartiene? Mi appartiene la terra nel profondo della terra? Anche un paese ha i suoi problemi di identità. Ha la sua coscienza e il suo inconscio. Le sue simpatie e le sue antipatie. Potrei dirteli uno ad uno gli indegni di abitarmi e so che ti piacerebbe, ti piacciono i ritratti di una riga, ma so che mentre mi ascolti ti distrai, pensi al tuo cuore, pensi al fatto che ti sei stancato di stare qui.

Lo so, avresti bisogno di stare per un poco da un’altra parte. Se vuoi puoi andare, non sono io che ti trattengo. Sai bene che altrove ti senti perso. Non riesci a crederci che puoi lasciarmi, non ci hai mai creduto. Forse perché qui in fondo non ci sei mai stato. Lo sai che ti conosco e so bene che io per te sono un pretesto, un modo per farti avvistare, per vedere se qualcuno viene a vederti. Sai pure che quando questo accade la cosa ti innervosisce, è come se tu volessi prolungare a tutti i costi il disagio, l’incomprensione. Ti sei troppo legato a ciò che ti è mancato, ti sei troppo abituato a tremare, a pensare all’imminenza della morte. Ti piace questo stare in bilico, ti piace il fatto che ti stanco, che ti porto al limite dello sfinimento. Tu credi che non posso darti altro che scrittura. Adesso esci troppo raramente e sempre con la macchina fotografica o la telecamera. Se non trovi una faccia interessante ti rivolgi ai muri, alle finestre. Hai fotografato ogni pietra, ogni portale, conosci a che ora arriva il sole su quella panchina, ma niente serve a distrarti e non finisci mai di pensarti, stai sempre in mezzo ai tuoi pensieri. Ti ho visto tante volte che hai lasciato il computer, ti sei alzato con l’idea che stava per arrivare il momento fatale. Qualche volta sei rimasto a casa, altre volte hai preso la via dell’ospedale. Ci sei entrato poche volte, ti bastava avvicinarti. Lo so l’effetto che ti faccio in certi giorni d’inverno, lo so che ti senti come una mosca nella bottiglia. Quando c’è il sole prendi la bicicletta e allenti un poco la tensione. Quando vai in giro per gli altri paesi e stai lontano dal computer la giornata fila senza troppe ansie. È qui che ti faccio male, ma stai tranquillo, faccio male anche ad altri. Li vedi quelli che girano tutti i bar, quelli hanno la tua età e sembrano già morti. Forse qui si salvano solo quelli che hanno meno di vent’anni e più di ottanta. Chi sta in mezzo o è agitato e sconnesso, oppure è in preda all’accidia.

Tu almeno hai capito come sfruttarmi. Mi usi come un laboratorio, sono il tuo esperimento. Ma guardati con distacco, non ti affannare, pensa ai ragazzi che vanno a lavorare alla Fiat e che fanno un’ora di macchina all’andata e una al ritorno, pensa quando partono d’inverno alle cinque del mattino. Pensa ai morti al cimitero, alle persone giovani che sono morte di cirrosi senza mai abbracciare una donna: erano qui pure loro. Quando eravamo novemila abitanti, quando stavamo stretti io mi vedevo poco. Adesso che siete in meno sembra che ognuno di voi voglia prendersela con me.

Io sono il giorno di Sant’Antonio, sono il sogno di tornare di un emigrato in America, sono un ragazzo che non vorrebbe mai andarsene, sono quel vecchio che non vuole morire, sono un avvocato disoccupato, sono una ragazzina che vaga col suo telefonino. Guardati in giro, nessuno risolve niente, si tratta solo di accogliere questa inesorabile verità. È inutile che mi usi come un pescatore usa un fiume. Sei un pescatore della desolazione, è un pescare a vuoto, è un pescare il vuoto.

Non puoi tirare avanti in questo modo, te lo ripeti almeno da una decina d’anni. Ormai mi somigli, ormai ci confondiamo. Una volta un critico ha detto che io esisto grazie a te. Si riferiva alla fama, immagino. Lo so che molti lontano da qui sanno il mio nome per merito tuo. Cosa vuoi che me ne faccia della fama? Un paese non ha ambizioni di essere conosciuto. Un paese non si aspetta niente dalla vita. È una cosa che esiste e si trasforma, una cosa che nasce e muore e dopo nasce di nuovo. Un giorno non ci sarà nessuna casa eppure io sarò ancora qui, la luce arriverà e arriverà la pioggia. Tu non ci sarai, lo so che ti fa orrore lasciarmi, lasciare il filo della terra, ancora non ti fai sommergere, ancora non ti fai bagnare dal pensiero che siamo destinati alla morte, cioè all’eterno dissolvimento. Ci sono persone morte diecimila anni fa e ancora non smettono di dissolversi, ancora c’è qualche atomo che si squarcia, che perde i suoi elettroni in questa poltiglia universale.
Tu non devi più occuparti della morte. Preoccupati di mangiare meno e di camminare di più. Non pensare a quello che ti può accadere. Sembra un pensiero facile, ma davvero c’è solo da cogliere l’attimo, c’è solo da pensare alla grazia di essere qui, di essere una parte del mondo, una parte unica come ogni altra. Vedi, adesso cade qualche fiocco di neve, so che più tardi vorresti uscire a filmare il paesaggio o a fotografare le mie porte chiuse o le mie porte murate.
Ora non è il caso di parlare di sindaci incapaci, non è il caso di parlare dei professori di scuola media che nulla hanno fatto per me. Non è il caso di parlare di persone piantate nel cemento delle loro case e neppure dei maldicenti che corrono per la piazza a passi brevi. Sono storie vecchie, ormai sei fuori, non ti riguardano. Sei qui solamente per partire, per riposarti tra un viaggio e l’altro, stai qui a scrivere d’altri paesi e io non mi ingelosisco, ti lascio fare, so che alla fine comunque parli di me, so che stare con me è più sano che stare con qualcos’altro.

Esci allora, esci anche stamattina. Magari ti passa anche il mal di stomaco. Io resto, non mi muovo, la mia natura è restare, è prendere la forma che la storia e gli uomini mi sanno dare.
Adesso la mia forma mi piace. Per voi è rotta e sconsolante, ma io trovo che sia unica e che va oltre il bene e il male. Io non diverto, non attraggo. Sono impervio e rude, non rilasso, faccio innervosire. Chi vuole il frivolo e il piacevole vada altrove. Io sono oltraggio, mancanza, maldicenza. Sono rancore a oltranza. Questa però è solo apparenza. In fondo ho un cuore buono e inerme. Sono mite e distratto, non bado a imbellettarmi, a darmi arie. Non penso a proteggermi, non mi sottraggo a niente. Potete anche lasciarmi solo, non ve ne farò una colpa. Sarò sempre qualcosa, anche se mi dimenticate, se mi seppellite. Tu questo lo sai bene, tu sei provvisorio e io definitivo.

Poco fa pensavo che mi è venuta l’idea di dirti cos’è un paese, posso dirlo solo a te che hai inventato la paesologia. Un paese è un dio, un dio locale. Quello che non funziona nell’idea di Dio spacciata dalle varie religioni è che sono sempre idee enormi, mai circoscritte. C’è sempre questa frenesia dell’infinito. Forse erano più veri gli dei pagani, uno per ogni cosa. E allora Bisaccia non è il nome di un paese ma il nome di un dio, il tuo dio.

10.4.11

goodbye baiano

la malinconia di certe traversate solitarie di giovani fidanzate nel deserto di piazza macello quando il bus per roma è appena partito, e con esso l'amore, ed è spazzato come per incanto il folle corteo d'auto, l'incrocio di sentimenti forzosamente affiorati sulle labbra di gente che ha l'emigrazione scolpita nell'asimmetria dei volti. alla prima curva, un uomo di colore, subsahariano, ci saluta sorridente ed il bello è che basta sollevare lo sguardo e scorgi qualche massaia sul balcone che osserva, con gli occhi lucidi. proprio noi che salderemo il debito dello stato con il contributo di partecipazione ai concorsi pubblici che mai ci aggiudicheremo. noi che di notte scruteremo la volta del cielo per raccogliere le ultime illusioni cadenti. all'ombra di montevergine più spelacchiato che mai, ma dalle cui dorsali finalmente scende vino bianco. oggi che la squadra di calcio è costretta ad indossare una maglia nera come l'ultimo classificato dei grandi giri ciclistici, di nuovo qui a maggio, accolti come sempre dagli ululati scomposti degli spettatori che attenderanno per ore i corridori, ai bordi delle strade. allora sarà probabile che il governo berlusconi sia ancora in sella e la sciagura sarà di vedere altri amici assuefatti all'idea dell'ineluttabilità del non-è-possibile-cambiare-niente. e tu no, tu pure non o saje.

8.4.11

il civil servant

ci pagano per mettere attorno ad un tavolo
impiegati pubblici indolenti
per facilitare la comunicazione tra balbuzienti
per far mettere nero su bianco a responsabili monchi
per recapitare pacchi di documenti in uffici di carta strabocchevoli
per far pesare la disorganizzazione, la perenne mancanza di risorse
dopodiché senza di noi, qualcosa farebbero peggio
ma il complesso resterebbe uguale
perché aggiungiamo benzina nel serbatoio
di un motore che abbiamo contribuito a sfondare

31.3.11

la fine della blogosfera italiana

nel tempo presente, lo sbigottimento che viviamo
è l’unica traccia di razionalità ravvisabile
in persone che hanno vissuto nel giro di sole due generazioni
il passaggio dalla premodernità alla postmodernità

27.3.11

lo sprawl a roma

belvedere del gianicolo
casalinga ammira la città che si distende a vista d'occhio
e sopraffatta da quanto vede, esclama
"troppo hanno fatto!"

26.3.11

i bui recessi della centrale idroelettrica

salvaguardiamo beni comuni come l’idea di camminare senza meta
senza ideali da urlare, in questa città che ci muore,
noi con ciuffi di campagna che ci spuntano dalle orecchie
che però abbiamo dimenticato il nome degli alberi, delle piante
e siamo costretti dal lavoro a raderci via il dispiacere ogni giorno
e prendiamo il vento in faccia della metro che arriva
ascolto i tuoi pianti lontani in una stanza stinta come la mia
le mie lacrime le raccolgo nel bicchiere poggiato sul lavello
il nero dei nostri affitti sarà reinvestito nei colori dei gelati all’angolo
incerti tra una impegnativa solitudine ed una precaria compagnia
chiusi come ricci, con le valigie già pronte per scappare in un’america come questa
oppure per un veloce autoscatto nella steppa mongola, e non importa se sarà tundra
c’è tanta paura nel gesto dei tuoi polpastrelli che estraggono notizie dallo smartphone
l’aria di rivoluzione non nobiliterà il nostro immobilismo,
siamo suggestionabili sia sull’amore che sulla guerra
nell'inesausta attesa di un risolutore che ci sollevi dalla fatica della libertà
così ti invocheremo per farti tornare dall’estero
ma appena sbarcato ti feriremo a morte con la nostra naturale dose di freddezza

23.3.11

aria di rivoluzione

effettivamente
amerei di più
oggetti di cristallo
che palloni gonfi d’invidia
guadagnerei di meno
e mi direbbero
comunque: “sprecato!”
perché tale è il destino
di chi sogna rivoluzione

22.3.11

gheddafi: il figlio di preziosi

questo nostro mare assomiglia, già da tempo, ad una frontiera marittima
che si estende dal levante al ponente separando l'europa dall'africa e dall'asia minore.
l'identità dell' essere vi rimane tesa e sensibile,
invece l'identità del fare riesce con difficoltà a compiersi e soddisfarsi.
pedrag matvejevic, da la repubblica del 21 marzo 2011



e non abbiamo più i titoli per disputare di politica mediterranea o quant’altro
perché ci siamo rinchiusi in casa a seguire il serpentone delle news
una processione nella quale in testa c’è l’oro del santo, il petrolio,
in coda, alla rinfusa, scristianizzati che discutono di una velina, del pallone,
però l’unico effetto che risalta, stordisce, è la nenia delle preghiere delle anziane con il cero
esecutrici di un rituale di cui sono carnefici e vittime

20.3.11

un poeta di nome manolo calzati

intraprendeva letture
che non lo convincevano
e tra sé e sé diceva
un giorno scriverò
io solo come nessuno mai
dell'amore perduto
tra i binari della stazione
ed uno spicchio di luna

16.3.11

italia 150

tricolori
afflosciati
lacrimano

15.3.11

decalogo, a uso personale, di sentimenti morali

arrestare il flusso nefasto di info e immagini
l’infotainment di sé per se stessi
imporsi due o tre regole morali
l’amore per il prossimo
accogliere le idee altrui
lavorare per frutti che germoglieranno dopodomani
non aver mai paura di se stessi
dopodiché come dimenticarsene

13.3.11

cantonata scanzonata

non vivo in me
forse a gesù non crederei
se fosse qua
razzi arpia inferno e fiamme - verdena

poiché non sopporto di rimanere in casa ad ammuffire, anche se il tempo è brutto, nei lunghi pomeriggi domenicali liberati dal lavoro, esco in strada e mi metto in cammino. camminare aiuta a pensare. così mi rendo conto che una delle nostre sventure è quella di essere un popolo orgogliosamente casalingo, poltrone – il cui massimo appagamento è di riposare dopo il pranzo domenicale sullo stesso divano in cui s’assopiva il nonno - bloccato dai più comuni fenomeni atmosferici, acqua e vento, come fossero spade infuocate che cadono dal cielo. esco fuori di casa ma non posso fuggire l’urbe disseminata e dispersa, o almeno il quadrante che di essa frequento, oramai battuto palmo a palmo, forse alla ricerca di moderne capanne di gesù bambino, di una rivelazione che può nascondersi soltanto nella periferia più degradata ma ancora, in via del tutto ipotetica, palpitante di vita. la verità è che se è vero che la scrittura buona sgorga pura da un stato di malessere prolungato, luogo comune ripreso ultimamente da rapper-cantautori che da adolescente marcavo duro a calcetto non per tattica ma per la loro insopportabile burbanza, dovrebbe essere vicino il tempo del mio capolavoro. ma un capolavoro viene fuori dopo ripetuti esercizi - mentre io frustro il mio presunto talento – e poi un capolavoro, a rigor d’etimologia, è un manufatto frutto di una serie di regole tecniche ed estetiche che ignoro, condivise da un gruppo di artigiani di cui non mi sento parte. ad ogni modo, è un fatto che mentre il tempo passa inesorabile, e fratelli e cugini e madri e figli riscoprono la scrittura come un modo per infliggere il proprio segno nell’umana tenzone - che ora pare sia sinonimo di twitter -, guadagno la consapevolezza che in passato ho scritto qualcosa che vale, degno forse di pubblicazione nei tipi delle edizioni ripostes, probabilmente dopo accurato e notturno lavoro di editing. tutto ciò è un pensiero stupido e vanaglorioso, lo so, ma sarà che, all’angolo con casale dei quintiliani, la madonnina di ceramica mi sorride mentre una busta di plastica sventola gonfia ed indifferente su un ramo.

6.3.11

amor vacui

che credibilità può mai avere una generazione la cui educazione sentimentale
è compendiata nella canzone "gli avvoltoi" degli 883?

1.3.11

poesiola delle sette ed un quarto

ci vuole metodo per ingabbiare il talento
che altrimenti muore lentamente
e non lo diceva solamente neruda
passare la cornetta del telefono ad un sordo
è un modo per declinare la responsabilità
di una risposta che non si conosce dove stia
della verità s’intravede solo la scia
acceca, illude, svia
perché è creata dall’immaginazione
ma si raccoglie soltanto in strada

27.2.11

sul napoletano errante

sento che esiste una forte relazione tra la tradizione napoletana e la tradizione ebraica: c'è una somiglianza tra i due popoli, hanno sofferto le conseguenze della guerra, hanno patito conquiste, epidemie, povertà e come conseguenza di questa vita hanno dovuto lasciare spesso le loro case, viaggiare in cerca di fortuna intorno al mondo. oggi trovi ebrei ovunque, proprio come trovi napoletani dappertutto... c'è (una) cultura che nasce dalla sofferenza, c'è la malinconia ma anche il sense of humour: io credo che chiunque abbia sofferto nella vita ne produca tanto per poter resistere alle avversità

noa, da repubblica di oggi

* il titolo del post è mio ma google documenta un altro blog che utilizza la stessa immagine proprio a riguardo di un'esibizione di noa: qui

26.2.11

via del casale galvani

pier paolo pasolini vive ancora in questa città

25.2.11

inspirare, ispirare

dovrei imparare a disegnare i volti di chi mi è accanto
su carta, riuscirei a fissare i pensieri che mi ispirano

foto da qui

22.2.11

grammar paradox

l'italiano per correggersi dovrebbe ripetere i verbi servili: potere e dovere

14.2.11

del buonismo (indistinto)

la benevolenza rivolta genericamente al prossimo, qualsiasi forma umana esso assuma, non è socialmente accettata quanto una passione d'amore, esclusiva, folle, che però non riesce a nascondere la sua carica di violenza per tutto ciò che la minaccia, per quanto le è estraneo. ciò perché fondamentalmente l'istinto dell'uomo è animale. l'animale si fa sociale solo in seguito e comunque non sempre o non del tutto.

la libertà è una parola nel vento

il liberalismo, come movimento di idee da cui originano in europa e poi si diffondono nel mondo le attuali forme di democrazia, si impone a partire dalla seconda metà del seicento, in inghilterra, grazie a pensatori come giovanni locke, con opere quali due trattati sul governo (1690), in cui si contesta l’assolutismo del monarca, i suoi pretesi diritti (divini) a governare, mentre quegli stessi diritti (naturali) si reclamano per tutti gli uomini (il popolo), in particolare per il ceto borghese: sostituire la vita di corte con il parlamento. l’esistenza di una forma di governo democratica garantisce la salvaguardia dei diritti fondamentali: di pensiero e parola ed espressione, di uguaglianza, di giustizia, di religione.

trecento e passa anni dopo, in italia, è urgente abbattere il governo attuale, e accantonare il suo capo, presunto alfiere delle libertà, proprio perché totalmente alieno da qualsiasi nozione di seconda mano di cultura liberale: possiede, nel paese, la quota più cospicua di ricchezza, circostanza che lo accomuna ad un monarca moderno, ed una buona fetta della sua ricchezza gli deriva da un impero mediatico (la televisione, cattiva maestra, potere disumanizzante e potenziale rischio per la democrazia è una tesi di un altro filosofo liberale, carlo popper) che utilizza, fin dal primo giorno della discesa in campo, per fini politici e dunque di censura dell’avversario.

infine ama riprodurre nelle sue regge la vita di corte, con giovani donne, gratificate da doni milionari, e talvolta da cariche pubbliche così come accadeva per i privilegi concessi ai nobili delle passate monarchie. dunque un passaggio dalla nobiltà di sangue alla nobiltà da fiction televisiva. dunque, benché ciò che pensa sulla giustizia sia indicativo della sua concezione della democrazia e le pendenze giudiziarie che incombono sul suo capo, qualunque ne sia l’esito, rivelatrici del suo rapporto per lo meno spregiudicato con la legge, ciò che lo dovrebbe condannare in perpetuo all’irrilevanza politica è l’assoluta incompatibilità della sua figura con il liberalismo.

un potere assoluto che invece di discendere da dio, proviene dalla tv.

12.2.11

la cura del sé

oggi è del tutto evidente che una questione bruciante consiste nel come il corpo e i suoi bisogni si accordano (in senso musicale) alla mente e ai suoi desideri. e le incertezze con cui nel passato si sono affrontati temi come questo rischiano di pesare come censura nei giorni a venire.

5.2.11

qualcosa per l'introversione

l'irpinia è piena di persone che corrono a secondigliano o scampia
per rifornirsi di sostanze che possano aiutarle
anche soltanto a chiacchierare
nel viaggio di ritorno

18.1.11

duemilasettecento anni o poco più di ruby

viviamo in un paese che è in grave depressione perché non accetta di morire