29.5.07

al duck sindaco

il polo vince al nord, titola il giornale. tenesse almeno lì, l'allarme per il surriscaldamento del pianeta risulterebbe meno pressante. tralasciando i non sense, mal riusciti, e pure l'analisi del dato nazionale, che a rigor di logica non esiste, essendo un'accozzaglia di dati locali assommati spesso malamente, mi limito a commentare l'elezione comunale di Atripalda, sulla quale si è già scritto. Al Duck Laurenzano è il nuovo sindaco della città dei fiumi (espressione, quest'ultima, coniata dalla ex sindaco, ora Presidente della Provincia, Alberta de Simone). il Laurenzano in questione vince col sostegno della Margherita (di De Mita Presidente e De Mita nipote), dei DS (di Alberta de Simone), dei Socialisti Italiani e del Movimento dei Repubblicani Europei. Suo fratello, Eugenio, cinque anni fa, perse la stessa carica, candidandosi col centro destra. Al Duck è già consigliere provinciale, eletto in quota Margherita. Il suo capogruppo è De Mita nipote. Avrà dalla sua tredici consiglieri (quattro della Margherita, sette dei DS, uno dei Socialisti Italiani). L'ultimo degli eletti, il socialista italiano, ha raccolto centotrentasei preferenze. Cinque anni fa, era il candidato a sindaco dei Liberi, una lista civica che raccolse tre centinaia di voti. La lista al Centro per Atripalda disporrà di sei consiglieri. Il capolista, tal la Sala raffaele, uomo di Gerry, con i suoi centonovantuno voti, sarà costretto a contendersi l'ultimo posto disponibile con tal Strumolo Attilio, che pure ha raggiunto la stessa soglia, probabilmente a dadi, oppure a colpi di fioretto. Gerry, eventualmente, gli terrà bordone. Arturo Iaione non ha tirato come l'avversario e ha ottenuto, come voti diretti al candidato sindaco, centoquattordici x (leggi ics) in meno, che non sono sufficienti, tuttavia, a volerle sterilizzare, a colmare lo scompenso che deriva dalla somma delle preferenze ai candidati di lista. Alleanza Nazionale raccoglie cinque centinaia di voti circa, e un consigliere. Rifondazione Comunista rastrella centotredici ics, sei candidati a secco, nessun consigliere, decisamente peggio rispetto ad un lustro fa. Su venti consiglieri, una sola donna, Annunziata Palladino, detta Nancy, DS; un solo giovane, Andrea Montuori detto Daniele, DS: fuochi d'artificio!

28.5.07

23.5.07

un post per te

nel passaggio di stato da studente a inoccupato
ho messo a tacere ogni nota di rilievo
ma fra un po' risfodero l'ipod
mi tappo le orecchie con le cuffie
e parto
(devo dedicarle un post, altrimenti non ci crede)
(devo dedicarle un post, altrimenti l'occasione passa)
di quindici giorni passati meno pericolosamente non si può
scorpacciata di quotidiani al mattino
appunti distratti nel bloc di pomeriggio
birra media di media di sera
e peccati di lingua
(devo dedicarle un post, finora non è efficace)
(devo dedicarle un post, finora confusione)
vuoi star con me?
NO
vuoi uscire con me?
NO
ho mille pensieri nella testa
una mitragliata di NO che rimbomba
eppure COPS ci appassiona
nel locale preferito vuoto e buio di venerdì
a commentare la diffusione di crack in america
sottovoce come al cinema
e ai due posti di lato i gestori fanno uguale
guarda che il canone bianco epilettico t'ama
non aver paura
un post per te
non te l'aspettavi eh?
NO
so che siamo ambedue per il "facile o niente!"
ma se serriamo i denti
un accordo si trova
meno liquido
meno

21.5.07

il buon governo come utopia

ATRIPALDA – Piazza Umberto I, verso sera, è semi colma, c’è subbuglio per i comizi che, secondo molti, decideranno l’esito della sfida elettorale per le amministrative di domenica prossima. Subito un colpo di scena. Dopo l’intervento del candidato di Alleanza nazionale, gli uomini di Gerry Capaldo, riuniti sotto l’ombrello della lista civica, Al centro per Atripalda, disertano il palco. Uno dei candidati di una lista avversaria, sotto anonimato, ci confida che la defezione è dovuta al timore di quanto avrebbe poi potuto dire il più atteso di tutti, Ciriaco De Mita (l’unico, in effetti, a disporre di voce su wikipedia, persino in turco). Dopo la trasmissione di ripetute versioni della canzone popolare (quella di fossati, intervallata dalla più recente degli afterhours), e un fugace assaggio del “cielo è sempre più blu” del compianto Gaetano, si parte col comizio. Introduce, piuttosto cantilenante, ma è un must qui, una giovanissima donna, che da verifiche successive non pare essere nemmeno tra le candidate, ma è quanto di più vicino alla rupture tranquille promessa dalla lista. A farle da cornice, e solo tra i riconoscibili, o non in quarta fila, Mario Sena, L.Gesù Anzalone, il segretario provinciale del MRE, il sindaco di Avellino, Giuseppe Galasso, la presidente della provincia, Alberta De Simone, infine, apparentemente distratto sulla destra, “il Presidente”, Ciriaco De Mita. Prende la parola il candidato a Sindaco, AlDuck Laurenzano, che per fedeltà alla bandiera, ha anteposto, talvolta, la politica alla famiglia, in quanto entità non altrimenti scalfibile. Che lo accusano di essere un uomo ambizioso, ebbene sì, lo ammette, lo è, perché un uomo senza ambizioni, è senza fantasia, è un uomo piatto (rattrappito, aggiungiamo noi, colpiti dall’enfasi). Insomma, che se c’è un uomo che ha tradito, questi è Gerry Capaldo, d’altronde la Margherita è una soltanto, e la presenza del Presidente scioglie ogni dubbio. Per discutere dei problemi concreti e dei programmi, ci sarà tempo (noi no, però), perché non vuole di certo rubare tempo al prezioso parterre. Dunque, parola alla De Simone. Mentre in alto, sul balcone del secondo piano del palazzo retrostante, parecchio fatiscente, nell’ombra, una donna nerovestita, assiste rapita. Simbolicamente o meno, resterà, per tutto il tempo del comizio, il riferimento più alto della piazza. L’Alberta si rivolge, ecumenicamente, agli atripaldesi, con voce mozza, prossima alla commozione, o è solo stile? Ha molto ricevuto dalla città ma molto ha dato e ancora ha da dare. In qualità di Presidente della Provincia. Cui, lascia intendere, gioverebbe interloquire con un’amministrazione dello stesso colore. D’altronde, non è stata lei, forse a finanziare il parco archeologico, 3 milioni di euro, per l’antica Abellinum? Non è stata lei ad aprire il primo centro dell’impiego della cittadina, nei pressi del centro servizi (ed è bellissimo, assicura)? Non è stata lei a programmare il pieno recupero del fiume Sabato, corso d’acqua principale della “città dei fiumi”, così da goderne tutti? E ancora si potrebbe fare, in un’ottica sovracomunale, tanto da contare di più, e scalare più facilmente le classifiche per ottenere i finanziamenti regionali (magari comunitari). Una metropolitana leggera che colleghi avellino alla stazione, ad esempio (e atripalda?), o comunque un deciso rafforzamento delle infrastrutture di trasporto verso l’università e i due corridoi europei (ché Baronissi non ci superi in strategicità). Che si punti sulla vocazione commerciale della cittadina, sui giovani colti, preparati, intelligenti: nugoli di teste bianche approvano. Insomma, si punti su Alduck Laurenzano. Nel frattempo, è sopraggiunta una leader nazionale, mica capperi, ché la posta in palio è bella grossa. Si tratta del segretario (mai segretaria) del Movimento Repubblicano Europei, Luciana Sbarbati. Che pur partendo in sordina, non potendo nominare né il nome del paese che la ospita, né il nome del candidato sindaco che sostiene, si riprende subito, e finisce, per la geografia, come un fiume in piena. Rivendica la laicità del suo partito, non certo il laicismo sfrenato, l’assurdità delle due piazze contrapposte (San Giovanni Vs Piazza Navona), la passione che è necessaria in politica. Dopodiché, e in nome dell’interesse generale, cui ognuno dovrebbe richiamarsi, richiama pure la spinosa questione dei rifiuti (di striscio evocata da Alduck, per il quale, tutto sommato, Atripalda rimane pulita). Dai giornali appare un dramma, ma da vicino (ora che ha girato un po’ di paesi della zona) è decisamente peggio. Talvolta, non si può nemmeno immaginare di aprire le persiane, una volta spalancate le finestre. Ebbene, in nome dell’interesse generale, una classe politica consapevole dovrebbe prima decidere, poi imporre la sua decisione, anche a comunità restie ad accettare contro il loro interesse immediato, in virtù di una decadenza del concetto di politica che è un'eredità degli anni del berlusconismo (non ancora finiti). Seguono applausi. Commovente sullo scadere del suo intervento, il tentativo malriuscito, di una donna più che appariscente, di passare al segretario, un foglietto, con su scritto il nome del proprio candidato, da sparare a tutto volume alla piazza (che ottimo volano elettorale sarebbe stato), scaduto in un nulla di fatto. D’altra parte la Sbarbati, ad ascoltar il consiglio, avrebbe rischiato di danneggiare il suo secondo microfono. Dopodiché il Presidente, De Mita. Che tra lezione di politologia e aneddotica paesana (quand’ero giovanotto, mi ricordo…) crea il silenzio tutt’intorno, aggroviglia il fluire del discorso e, quasi mai, ricerca l’applauso. In primo luogo, e piuttosto sbrigativamente, mette in chiaro le ragioni del suo sì al partito democratico, ché dopotutto si rimane nel centrosinistra, sebbene sia stato, sulle prime, scettico, ma quando iniziano i processi, i percorsi, si discute insieme, si cercano le soluzioni, e solo se non convincono, si fa un passo indietro. E lui, ribadisce, nei processi (sottinteso, politici) non si tira mai indietro. Rivendica (e questo lo dice alla Sbarbati che è una laica) la sua discendenza popolare che non assume le prescrizioni della gerarchia facendone norma, ma non può prescindere dalla dimensione religiosa di ciascuno (dalla trascendenza), dai vincoli solidaristici che ne discendono (e a dispetto di chi riduce tutto a transazione, alla dimensione economica). Il tutto infarcito di digressioni impensabili. Persino all’accertata nocività della cura Di Bella. Questo per dire che mica l’agenda politica può seguire l’emotività della gente. Giammai, deve governare i processi. Come per l’emergenza rifiuti: la gente vuole che la questione si risolva (il servizio sia prestato), mentre la classe politica locale (che, en passant, ultimamente lo allarma perché sottosviluppata) si “prende” l’emergenza e lascia, in strada, i rifiuti. La politica è altro. Solo quando non si trovano soluzioni alla malattia, si ricorre alle fattucchiere (e ce n’era una a Guardia de’ Lombardi, che era una… si blocca per evitare di scadere nel vituperio). Poi, torna alla questione di Atripalda. Precisa, e mai un affondo, che è un amico della famiglia Capaldo. Una delle sorelle, all’inizio della sua carriera (quanti decenni fa) era una delle sue più accese sostenitrici. Amico del padre. Amico di Pellegrino, una delle intelligenze più vive in campo economico-finanziario, nel nostro paese. E – suspense- era e rimane amico di Gerry Capaldo. Al quale aveva offerto, la penultima volta che l’ha incontrato (e l’ultima?), al congresso regionale della Margherita, la candidatura a sindaco. Ma lui aveva tentennato, allorché, gli aveva dovuto ricordare che se non si fosse candidato, si sarebbe dovuto decidere (con enfasi estrema). Decidere il suo allontanamento? Gerry Capaldo che difende una politica del ricordo, l’aveva seguito, per amicizia, ma forse senza convinzione, nell’avventura nei popolari, e poi nella margherita. Concede all’avversario addirittura, le sue preoccupazioni, intorno al progetto del PD, sono legittime, ma passare al centrodestra, è decisamente troppo. Poi, con personaggi di dubbia risma. E allora, allarga le braccia e chiama la piazza a decidere chi tra Iaione e Alduck Laurenzano meriti di più, per qualità personali, storia politica e quanto altro. Scrosci, inevitabili, di applausi. Lista avversa, appoggiata da uomini dell’Udeur. Chiede se Mastella è venuto a chiedere voti. Gli rispondono di no. Perché si è vergognato, aggiunge sarcastico. Mastella che ricerca non il centro politico, quanto il centro famiglia. Insomma, non c’è molto da almanaccare. Basta saper lavorare (e questo non lo dice solo alla De Simone), basta saper dare risposte alla cittadinanza, e il centro sinistra (almeno qui) non può perdere. Qui, che il centrodestra esiste solo per distrazione del centrosinistra. E, ad Atripalda, dove da ragazzo, negli anni del liceo, e con i genitori che avevano un negozio di stoffe, venne a comprare un vestito (non da Passaro, come gli suggerisce la folla, che poi striglia, perché non importa). Vestito che pagò 10'000 lire, e che il padre, da esperto, riconobbe essere di buona fattura. Questo per dire che si deve scegliere, e ben scegliere, come lui fece all’epoca. Scegliere Alduck Laurenzano. Chiude e la piazza si svuota, solo un capannello intorno al Presidente. Oggi replica la lista, Al centro per Atripalda. E se c’è una cosa più giusta delle altre, tra le innumerevoli dette stasera, lo si deve, di nuovo, a De Mita, il quale se la prende con chi, tra i candidati, e leggendo i programmi e le dichiarazioni ai mezzi d’informazione, spara enormità come si candidasse alla carica di governatore del mondo, assumendo posizioni sulla guerra, la povertà nel mondo, sul rapporto stato e chiesa. In realtà, si tratta di governare una piccola cittadina, seppure è “la città dei fiumi”, governarla bene, e già sarebbe tanto, se si riuscisse a consentire a tutti di spalancare liberamente le finestre. Dietro piazza Garibaldi, giovani della Rifondazione Comunista, suonano e ballano. Nessuna eminenza grigia. Vinca il migliore?


Per cronache più minute e meglio avvertite, si legga qua e qua

15.5.07

harry e i fratelli

Ai marines stelle&strisce di stanza in iraq è stato vietato l’utilizzo di Utube e myspace e altre cianfrusaglie. Rischiavano di fornire informazioni riservate al nemico. D’altra parte, la velocità della rete telematica a disposizione della truppe occupanti risultava parecchio rallentata, ultimamente. Il principe William, immalinconito dall’ultima disavventura sentimentale, ha attivato un profilo sul network face box. Suo fratello, il simpatico Harry, ha fatto armi e bagagli, e ha raggiunto il suo battaglione al fronte iracheno. Essendo, attualmente, il terzo in linea di successione al trono, è improbabile che il Principe sia impiegato in prima linea. I terroristi/resistenti si immolerebbero volentieri per ottenere il suo scalpo. Più probabile resti in retroguardia, a smaltire il lavoro d’ufficio. Se il divieto posto per i soldati americani fosse allargato a tutte le truppe della coalizione, Harry, di fatto, non potrebbe né leggere né commentare il “muro” del fratello.

11.5.07

Per non morire da...

Credevo che a saperne di più il mio problema si sarebbe semplificato, e forse era bene completare la mia istruzione. Ma da quando ho lavorato per Robey, sono giunto alla conclusione che non potevo utilizzare nemmeno il dieci per cento di ciò che sapevo già. Ti faccio un esempio. Ho letto della tavola rotonda di re Artù, quand’ero ragazzo, ma a che mi servirà mai? Il sacrificio e gli sforzi mi hanno toccato il cuore, che dovrei fare dunque? Oppure prendi i Vangeli. Come credi di poterli mettere in pratica? Macché, non sono utilizzabili! E allora corri ad accatastarci in cima altri consigli ed altri nozioni. Qualsiasi cosa si limiti ad aggiungere nozioni che non puoi utilizzare è solo un pericolo. Comunque, ce n’è fin troppa di questa roba, ecco che cosa ho capito, troppa storia e troppa cultura da seguire, troppi particolari, troppe notizie, troppi esempi, troppe influenze, troppa gente che ti dice di essere come loro, e tutta questa enormità, abbondanza, turbolenza, questo torrente impetuoso come le cascate del Niagara. E chi dovrebbe interpretarlo? Io? Non ho abbastanza testa per padroneggiare tutto. Mi sento portar via, guarda! un uomo potrebbe passare così quaranta, cinquanta, sessant’anni entro le mura del proprio essere. E ogni grande esperienza avrebbe luogo solo entro queste pareti. E ogni conquista resterebbe entro queste pareti. E anche ogni fascino. E perfino l’odio, la mostruosità, l’invidia, il delitto, sarebbero là dentro. Questo non sarebbe che un sogno tremendo, spaventoso, dell’esistenza. È meglio scavar fossi e prendere gli altri a badilate piuttosto che morire fra quelle quattro mura.

da Le avventure di Augie March – Saul Bellow

La fototessera digitale, altrimenti detta badge, che, consentendomi di superare il posto di guardia degli uscieri in armi, mi permette di entrare, immune, nel campus universitario, ha una seconda funzione, sconosciuta ai più, benché utilissima, o quantomeno lo è stata per la “mia educazione”. Durante la sessione di esami, quando altrove la tensione scalfisce la tranquillità degli studenti, per chi non se la sente di affrontare l’incertezza del confronto col cattedratico di turno, la nostra benemerita istituzione accademica offre pacchetti vantaggiosi, 3 (esami)x 2, e via dicendo, a seconda delle ambizioni di media e di carriera, a seconda della generosità di ciascuno. È proprio il codice a dieci cifre del badge, che opportunamente digitato sul touch-screen del sottoscala che offre l’accesso al famigerato caveaux, dove un uomo della segreteria, impeccabilmente vestito, conclude la transazione, consultando tariffari e aggiornando registri. Il giorno dopo, l’esame vero e proprio passa via liscio, il professore firma il libretto ligio, tu esci fuori e sorridi al vento. Peccato per chi biasima solo perché ne resta fuori!

Un’aula smisurata così non l’avevo mai vista. Forse perché non si trattava di un’aula. Eravamo ad uno dei padiglioni della fiera di roma: migliaia di banchi, matite, teste. Tre giorni dopo l’undici settembre, affrontavamo, smilzi, il test d’ingresso per l’università. Il numero chiuso impediva all’intera massa frignante di entrarvi a mani basse e a mani basse prendere. Da parte mia, tormento (o tormentone dei primi mesi): tentativo abborracciato di scansare nullafacenza certa, risucchiato com’ero dai doveri di un futuro da qualcosa. Ma poi, e prevedibilmente, il “tanto per provare” bastò. Certo per un pelo. Perché a metà prova, pensai m’avanzasse tempo per guardarmi intorno e godermi quel dannato lavorio di sospetti brocchi, fieri di arrivare. E nel rimanere indietro, ritrovavo il gusto di metter in sospensione un’adesione mai accreditata. Dei minuti finali ce ne tolsero tre, ché la voce già malferma del rettore ci chiamò al silenzio per le vittime del disastro delle torri. Dacché io riflettei che il continuare a scrivere non m’impediva di rispettare quella richiesta. Pochi secondi e un paio di attendenti si avventarono contro la mia persona e per poco non ne fui cacciato, da subito. Pochi giorni e i caccia americani cominciarono i bombardamenti sull’afghanistan. Pochi giorni e si chiuse una, breve, stagione di speranza.

Innanzi al portone sbarrato della sala colonne, all’interno della quale, solerte, la commissione d’esame decide la mia sorte, emetto sudore copiosamente, mi mangio le labbra nervosamente. Sono stato il primo della giornata ad essere chiamato dentro. Non volevano neppure che leggessi le mie sporche slides. Il mio relatore m’ha subito intimato di arrivare alle conclusioni del lavoro. Poi, poiché m’attardavo a recuperare il discorso, sapientemente preparato, mi ha assestato una domanda sulla contabilità nazionale, di cui tardo a comprendere la potenziale portata. Ma nonostante i miei voli pindarici, approvavano entusiasti, si davano di gomito, fossi capitato in un manicomio? Fuori, riprendo alla memoria quello che è successo, mentre intorno, i pochi sopraggiunti, mi incitano, mi rassicurano, mi detergono la fronte. Un uomo, tarchiato e col pizzetto, tirato in lucido e dal pesante accento siciliano, mi si para davanti e mi chiede di dipingergli la scena. Gli sbiascico due parole, poi, evidentemente, visto che non ne ho più, mi presenta la referenza, è il padre di w.g., mica cazzi. Avrei dovuto essere più gentile. Ma il tempo è poco. Si aprono i battenti. Gli uomini in toga sono lì ad attendermi. Gli uomini in toga sono tutti in piedi. ‘Fanculo a tutti!

Senza personaggi così, la teoria secondo la quale, tutto sommato, la mia università, a livello faunistico, non si differenzi molto dalle altre, perderebbe il suo peso specifico. C’è da obiettare che gran parte dei “personaggi così”, a tempo debito, si sono ritirati, si sono insabbiati, al meglio, si sono lasciati sfilare, oberati da esami, a loro detta, insostenibili. I primi due che conobbi, per esempio, in una mattina di ottobre, vecchia un secolo oramai: il palermitano indolente che soffriva di saudade e, forse, abbandonò l’idea di studiare già prima di salire. Con cui elaborammo sapidi scherzi verbali, durante le lezioni infinite del primo anno, in aule gremite e, dunque, con obiettivi mobili in abbondanza. E a.p., casco di capelli, primi anni novanta, di anzio, tifosissimo della roma, e di una puntualità che lasciava intendere un desiderio di non deludere le attese. O ancora, l’ascolano filosofo, con lunga coda di cavallo, con cui conversavamo, tra il colto ed il ridicolo, nel parchetto, di come tutto lì intorno ci stesse riducendo come in una batteria per polli. Di lì a poco sparì. In una batteria per polli la sorte peggiore spetta al pollo soppresso o al pollo riprogrammato?

Sino al giorno, in cui, smarritomi per una storia d’amore andata a male, capii l’importanza di calibrare bene i miei passi e sostituii una mia vecchia teoria - per la quale era inutile conservare, nella rubrica telefonica, i numeri di coloro che ritenevo avrei perso facilmente lungo la strada – con una nuova, ancora non accantonata, in cui mi sarei tappato il naso e sarei stato più attento alle pubbliche relazioni. Tanto da finire, da osservatore, a gozzovigliare ad una tipica festicciola (universitaria) del giovedì, dall’altra parte del tevere, assediato dalla gioventù che di giorno, accuratamente, evitavo, e prendere il mio look come un’attenuante. Oppure al cinema d’essai, di domenica, accanto alla chiesa - da cui, dopo la funzione del pomeriggio, defluiscono sciami di giovani benpensanti e illibati – a godersi pellicole armene, ultime a cannes, di bianco immacolato e silenzio rimbombante. Poi, chiudere la serata con un passito, col giornale del giorno dopo, che ti annerisce i polpastrelli e appaga il tuo bisogno di informazione, forse già prima di leggerlo. Il giorno successivo, lo stesso giornale, nell’aula otto, avrebbe scatenato il solito dibattito sul “giornalismo schierato”, sull’italietta della malora.

I commenti successivi:
◙ Sei stato un po’ arrogante col professore, se mi permetti, l.
◙ Io non posso chiedere niente a te, tu niente a me, l.
◙ Non vedi l’ora che finisce tutto, eh? Da vero anti-social!, f.
◙ Ubriacati, sbracati, impazzisci, r.
◙ Mi devo un po’ riprendere dalla giornata, a.
◙ Ora non ci vedremo mai più, vero? M.
◙ Lo sai che sei un grande? Prendi per culo e parli in faccia, f.
◙ Fai finta di essere affettuoso, m.
◙ Ora ho capito perché tuo fratello ha sempre preso le mazzate, p.
◙ Grande!, g.
◙ Se verrai a trovarmi, tortellini, f.
◙ Ho sbagliato numero. Comunque, auguri!, a.
◙ Ovviamente, con il massimo?, g.
◙ Non sono venuto ché si è rotta la centralina dell’auto, q.
◙ Vado via ché devo mandare una mail al professore, s.
◙ Stai tornando (magro) come una volta, g.
◙ Ti conviene rimanere qui; fai una vita diversa, no?, s.
◙ Ora raccogli tutte le occasioni: lavorolavoro!, m.
◙ Ora, sei passato di status, l.
◙ Bell’ambasciatore!, f.

Niente è stato uguale all’ultimo anno universitario. Tra mensa, aule studio, biblioteca, per la prima volta mi sono sentito parte del tran tran quotidiano, quasi fossi uno studente normalizzato. Proprio quando gli esami erano finiti, o quantomeno si cercava ogni genere di giustificazione per cercare il modo di non accelerare, senza esser mazzolati finanziariamente dalla scure che si abbatte sui fuoricorso. Ci siamo riusciti. Eppure, è finita. Ci teneva stretti il timore di perdere la parte più preziosa della nostra giovinezza. Sbagliavamo. Difficile abolire il tempo per i rimpianti ma, almeno, non bisognerebbe programmarlo con largo anticipo. Ora, col culo scoperto, cercheremo di non deluderci, di non soffrire troppo per i successi annunciati di chi, finora nostro simile, ne anellerà di sostanziosi, e a catena, ma svendendosi anima e corpo. Saremo ancora in cerca dei maestri di vita, che la nostra università, pure a pagarla oro, o forse proprio per questo, non è stata in grado di offrirci. Cercheremo di scoprire chi siamo, e se l’imprinting universitario si rivelerà una falla o una arma. In ogni caso, dovremmo ringraziare per sempre, le maschere che hanno allietato le nostre lunghe giornate: l’usciere rauco e l’usciere capellone, il vigilantes capo e il vigilantes scemo, il professore in bermuda e il professore balbuziente, la bibliotecaria assillante e la bibliotecaria ammiccante, infine, posterina, per l’ispirazione.

Ore nove e un quarto: preciso come uno svizzero. A sei giorni dalla discussione, devo presentare il lavoro, rilegato, al professore sgusciante. Prima, vado a prelevare il suo assistente, che, fedelmente, o finto tale, mi ha seguito in questi mesi, e che arriva, in ritardo, già trafelato. È bell’in tiro. Non vorrei che, come l’altra volta, fosse, in presenza del professore, più a disagio di me, fino a biascicare le frasi, a dimenticare l’essenziale. Mi offre subito un caffè, mentre sputa fango sulle amministrazioni regionali. Poi, prendiamo di corsa un taxi a via delle province. Dobbiamo raggiungere il Professore, che ha un consiglio di amministrazione al quartiere Parioli. L’assistente comincia ad armeggiare col contenuto della sua borsa, in cerca di un foglietto su cui ha appuntato la scaletta della mia tesi e altre informazioni preliminari da presentare al cospetto del Professore. Comincia a sudare. Di buona volontà, gli dico che potremmo riscrivere il tutto e, tremolante per gli scossoni dell’andatura, stilo l’elenco. Nel frattempo, il taxista, intruppatosi nel traffico, chiede la strada ad un rom, di turno al semaforo. Ne ottiene una scrollata di spalle dispiaciuta. Fortunosamente arrivati a destinazione, si fa ironia sui prezzi degli attici in zona. Dopodiché con manovra repentina, l’assistente mi lascia giù ad aspettare, perché non è il caso, perché non ce n’è bisogno. Finisco per passeggiare nervosamente, superando vecchiette smancerose con cani e giovani uomini impettiti. L’assistente scende dopo cinquanta minuti, colla battuta pronta: “trovato qualche appartamentino interessante?”. Scende pure con una fame dannata, si sbafa tre tramezzini in pochi secondi, poi si conversa di letteratura, di egitto e di Lisbona, di kharma personale e di vino locale. Scopro che ha una manciata di cognati. Entra nel tram e paga il biglietto. Io glielo timbro ma proseguo nella corsa da portoghese. Se salisse il controllore, mi pagherebbe la multa? Dalle parti di villa torlonia, mi lascia ripetere il discorsetto, e, conveniamo, che l’affanno si compensi coll’emozione del giorno a venire. Lo convinco, ma credo basti poco. Di nuovo, sotto casa sua, mi strattona con presa da basket player u.s.a., e mi incita, “spaccagli il culo, a questi, vecchi, rincoglioniti ed eterni!”. C’avrei provato, non m’hanno dato nemmeno il tempo. Si accomodi, grazie!