31.8.10

l'importanza del lego

la strada è ancora poco trafficata, dunque silenziosa, si potrebbe restare a letto se non fosse per il lavorio dannato delle zanzare, voraci di sangue dolce, tesi però smentita da un servizio del telegiornale, a sentire la sarta dalla parrucca color argento. si potrebbe restare a letto perché tanto in ufficio non c’è nulla da fare, se non contare le auto in transito sulla colombo, i pezzi dell’impalcatura che riveste il palazzo, le sirene delle ambulanze. certo si potrebbero sempre gonfiare le storie delle vacanze, raccontare delle donne di due metri e mezzo, dai seni miracolosi, scoperte in un paesino sperduto del congo, delle bellezze dei classici, cristallini, mari del sud, solcati da un cataramano noleggiato a civitavecchia, costato un altro tipo di bellezza ma lasciamo stare. ma tutto sommato si evita perché siamo troppo lontani l’uno dall’altro, cento stanze (di cui la metà vuote) e un corridoio di due chilometri. eppure potrebbe non dipendere dalla distanza quanto dalla noia, fissiamo rapiti lo schermo del portatile da cui attendiamo sgorghi sapienza. la mia proposta di utilizzare una delle cinquanta stanza vuote per il lego è stata subito rigettata dal personale.

30.8.10

deflussi

non esiste evento estivo più fotografato, dagli artisti in erba dell’immagine, che girovagano forsennatamente per l’emiciclo per cogliere l’attimo e intanto si premurano di spiegare ai malcapitati che i loro aggeggi ottici sono composti di pezzi semplici, semplici da aggiustare. intorno cresce e s’annusa la nuova classe creativa locale, tutte le città con ambizioni di esserlo ne hanno una. d’altra parte il lavoro gratificante o è creativo o non è, forse perché scomparsa è l’idea che gratificante possa essere il tempo liberato dal lavoro, fuori in città, fuori dalla città. la musica elettronica a volte è brusio meccanico di sottofondo, altre volte esplode in ritmi sincopati, addolciti dalla linea armonica di una chitarra. le luci colorate accecano, non è peccato offrire le spalle ai d.j., non ballare. sulle balle di fieno coppie stravaccate sparlano tirando una sigaretta dopo l’altra senza poi accendere la miccia sotto le gambe. i più assorti, o probabilmente chi serba una qualche malinconia, si affacciano sulla terrazza e ne vedono una seconda, non calpestabile, frutto dell’architettura anarchica del teatro, che copre in parte i ruderi del castello longobardo di fronte. dal cui cantiere prorompe una scala di metallo che annichilisce e rinvia a data da destinarsi il problema di come utilizzare lo spazio, la piazza che ne esce. eppure la migliore installazione del festival sulla cultura digitale resta la gru biancorossa del castello. bastavano un paio di luci ad intermittenza, qualche movimento pure simulato da un gioco di luci, ed ecco perfettamente espresso il concetto di interazione, non con i corpi e i suoni delle persone, che si dimenano, che urlano, tridimensionali ma inautentici perché mai come ora consapevoli del loro impatto visivo, quanto l'interazione con questa terra: ricostruita daccapo ma con errori, digitali, o zero o uno. già domani quella stessa gru si metterà all’opera: pizzicherà uno qualsiasi dei partecipanti e lo catapulterà oltre la linea di confine delle colline. dopo flussi, deflussi.

26.8.10

diecimila giorni

e furono diecimila giorni
di grazia e di tremori
di un’ansia sotterranea che genera sudori
per un bambino che brucia sterpi
nel sentiero stretto che conduce ad una fonte
in una frazione di mondo
barbara quanto basta da non potersi mimetizzare
erano giochi solitari o ammucchiate di pallone
mentre telekabul crollava e giochi senza frontiere
non superava i parametri di maastricht
l’inno delle medie non suonava bene
quanto gli amici della cassettina
nel progetto rivoluzionario di una radio di quartiere
poi venne il liceo e i rigidi protocolli della città
dei dottori, degli avvocati, dei segretari di partiti mai nati
delle giovani donne truccate
e di una via di scampo dall’intruppamento
salvezza e tormento
verità o infingimento
non ci fu il tempo giusto per appurarlo
perduto nell’innamoramento
e riemerso nella capitale smisurata
a scansare, di nuovo, altri modi alieni
esasperate convinzioni dell’ultima ora
ragioni che non ammettevano dissensi
fino ad oggi
alla società spappolata
indecifrabile
perché i pesci non si muovono in branchi
preferiscono mischiarsi in un prisma di colori
o nuotare solitari
verso l’abisso del mare

4.8.10

petrolnocella

s'inaugurano nuovi parchi urbani ma è complesso demolire le case diroccate circostanti. l’assessore all’urbanistica è stato da poco rimpiazzato, l’ordine degli architetti è in fermento, ma nessuno crede veramente sia quella la delega pensante per il futuro, piuttosto quella pesante. nella gente che incontri, mai si discute di futuro, solo di quando eravamo giovani e belli, si giocava al campetto delle palazzine e colpire i legni era un dolore al petto. ma forse questo, e il resto pure, già l’ho scritto. il corso pedonale è talmente lungo che si strascicano i passi che è un piacere e i vestiti-poveramente progressivamente scompaiono alla vista. si continua a parlare a non finire, eppure qualcosa si è perso perché ora non parliamo di noi ma al massimo di qualcosa che oscuramente incombe. e non si tratta della scomparsa dei de mita. sulla variante, un sacchetto dell’immondizia viene abbandonato da un cane. la linea della funicolare, illuminata, nella notte rende un favore a chi intende misurare con le dita l’altezza del monte. il cartellone del ferragosto è una lenzuolata, soddisfa tutti i gusti ma non ne mobilita di nuovi. è lunga, troppo lunga la città, da una rotatoria all’altra chilometri, di una sola fila di case. troppa è la benzina che s’impegna, bisognerebbe ricavarla dalle nocelle. chissà che il metodo non aiuti a riformare la chimica dell’aria, tanto buona a respirarsi, ma che poi ripetutamente t’incita, scappa, scappa dalla cappa e non voltarti indietro.

3.8.10

ucronìa irpina

il monumento simbolo dell’irpinia, la montagna dei quattro, è un complesso scultoreo che si trova a volturara in provincia di avellino, formato da enormi blocchi granitici. negli anni novanta, a conclusione della magnifica opera di ricostruzione dal terribile terremoto dell’ottanta, la provincia di avellino commissionò il progetto di riconversione di una vecchia cava abbandonata ad un artista locale di fama internazionale, pippo pallatucci. sulla grande parete di roccia, visibile da gran parte dei paesi della valle del sabato, pallatucci scolpì i volti degli artefici della ricostruzione: salverino de vito, ciriaco de mita, nicola mancino e, unico non irpino, giuseppe zamberletti. la scultura, i cui lavori iniziarono nel 1993, proseguì con l’impiego di oltre mille operai, sino alla morte dello scultore, avvenuta nel 1999 e fu inaugurata nel 2000, ventennale del terremoto, alla presenza dei quattro uomini politici.l’opera è alta 25 metri ed è importante meta turistica, anche per le bellezze naturalistiche della valle del dragone. gli irpini ne vanno orgogliosi.

2.8.10

la polveriera

quando il vento in quota alza la voce, il valzer delle nuvole che s’annerano confonde l’umore nel reticolo dei paesi sottostanti. vicoli svuotati e masserie violentate per il ricevimento degli sposi, borghi in competizione nell’ospitare arti da strada mentre i villaggi accanto non hanno denaro per la pubblica illuminazione. le bocche della gente ospitano espressioni gergali, in un tempo in cui tutto il resto si forgia altrove. non importa se nel loro cuore alberga momentanea tristezza o dura soddisfazione, è pur sempre un’epoca che si trascina e ci trascina dove non è dato sapere. dopodiché si possono dismettere i toni apocalittici, l’urticante accento profetico e abbassarsi volentieri a discutere del possibile ripescaggio dell’as avellino 1912, confrontarsi sul futuribile confronto per la premiership tra un gay dichiarato ed un puttaniere che nega. rimane lo smarrimento come cornice e mancano gli strumenti con cui spezzarla. mancano la letteratura, il cinema, la musica, le arti, non necessariamente quelle di strada, che sappiano non solo riconoscere la crisi ma affrontarla e sostituire gli ultimi scampoli di modernità con qualcosa di altrettanto compatto. manchiamo io, io, io e, dispiace ammetterlo, un pochino pure tu.