31.8.06

29.8.06

tutti i miei break

ieri sera, disponevo di pallina (a riccio) che ad ogni balzo, magicamente, esplodeva in mille luminescenze, “dono azzeccato” della madre, reduce dal soggiorno transalpino. scagliata in cielo d’impeto per valutare l’altezza raggiunta dalla mia forza, misurabile in piani di palazzo, è precipitata in terra, spenta: distrutto il meccanismo d’accensione. l’ho affidata alle cure della compagna neo-archimede, già pronta a congegni riparatori, mentre io, meditabondo, commiseravo il mio lancio da “un piano e mezzo”.

e correvo di memoria alle partitelle infinite di calcetto di noi dodicenni, quando c., stremato dai colpi di sfortuna e dalla scarsa partecipazione della squadra, s’avvinghiava sul super santos di turno, il terzo del pomeriggio?, e lo sparava in aria, col suo destro potente, unico suo piede disponibile, in verità, e noi naso in su ad ammirare quel portento: un lancio da “quinto piano”, talvolta uno stupefacente “sesto piano”, proprio in faccia allo zio, che ammirava dal suo balcone le nostre prodezze.

le cose non vanno meglio al tennis. ieri, sconfitto 4-6 6-1 3-6. colpi da registrare: diritto, volée di diritto, volée di rovescio, servizio, rovescio liftato… non posso cedere, a cuor leggero, tutti questi break!

25.8.06

un giorno in petruro (come promesso)

ci sarà, per noi, un giorno in petruro? girovaghi curiosi e spersi nel paesello anonimo da valle del sabato: idea che viene dal manifesto sbiadito, affisso sull’eliseo (eternamente) in rifacimento e che promuove sagra eno-gastronomica, festa patronale, folk-rock-pop festival a turnazione, gli spazi vuoti riempili con l’immaginazione o con un pennarello. i muri dei cantieri, lungo il corso vittorio emanuele, dove affissioni abusive sono state coperte da fogli immacolati, lasciano che i “writers” possano esercitarsi liberamente. peccato siano anticipati da dubbi messaggi d’amore, pezzi di canzone, versetti apostolici, forzalupi&onoreaidiffidati.

ho terminato di leggere “zazie nel metrò” di queneau e ho fatto pace con la letteratura. s’invecchia perché diminuiscono le occasioni per stupirsi. mentre la mia irrilevanza nel mondo delle lettere (altre) è talmente risaputa che le poste ignorano il mio recapito che dopotutto manca di numero civico. percorrere in auto due chilometri di discesa, pur di evitare, al ritorno, una ripida ascesa da appiedato, offre il fianco alle disapprovazioni dei parenti.

la password del mio blog è cosa quasi-pubblica. la mia faccia, ancora no. una stupida barba stupidamente la occulta!

18.8.06

pazzia guerra

lascia stare tutto quello che non vedi, è inutile fissarsi
andare con lo sguardo oltre alle montagne del quadro che hai davanti
se vuoi vittoria avrai vittoria
se vuoi sconfitta avrai sconfitta
ma poi il destino in naftalina mai
non chiuderlo in soffitta
lascia staresamuele bersani


s’impazzisce per poco. non sempre in modo eclatante. spesso, invece, è una strisciante follia che serpeggia. in casa altera rapporti familiari, sfornando improvvisi mutismi, silenziose porte in faccia. se fossi un ultras del compromesso, griderei slogan formulabili senza fatica. e invece m’impiccio nella dizione esatta delle parole e la corsa nella stanza accanto, in cerca del vocabolario, mi è fatale.

se fossi più simpatico, sarei meno antipatico. così da rendere meno sgradevole il tuo girare attorno pur di non incrociarmi. emano energie alterne, sfoggio personalità contrastanti, però di peggio è contrassegnato il mio passaggio, non mi lamento. torno al blog con cadenza personale, non posso farne a meno, nonostante mi autocensuri, mi autoallontani, mi autoinganni, mi autoilluda

detesto tarante, pizziche, ogni tentativo rabberciato di recuperare tradizioni umiliate per decenni. tra l’altro non ho bisogno di sapere che il mio trisavolo fu un “onesto brigante” per amare la mia terra, su cui, magari, sputo ogni santo giorno, calpestando diritti, disattendendo doveri. è un discorso populista, il mio, odioso e giustificatorio. detesto le tarante, le pizziche soltanto perché, a pelle, mi sorprende la loro inaspettata “popolarità”.

pianifico programmi di studio sistematicamente infranti. su carta bianca, segno i numeri dei giorni che ancora mancano alla data del penultimo esame. poi, applico oscure equazioni algebriche, (numero di capitoli * quantità di ore necessarie): giorni di studio, e pervengo a risultati subito contestati dalla quasi maggioranza scansafatiche, la cui mozione “merenda + vagabondaggio casalingo” passa clamorosamente, allontanando laurea e dopolavoro.

è in giorni come questi che m’angustia la possibilità di tutto, l’approssimarsi del niente, l’afa opprimente, i pomeriggi al vento, i mulini. è in giorni come questo che mi trovo a scrivere, quasi naturalmente, cose di poco conto ma necessarie perché possa continuare. a scaricare (in mare) la mia particolare forma di pazzia che altrimenti serpeggia in casa, indisturbata.

è in giorni come questi che me ne sto ad aspettare il tuo amore!

12.8.06

ragazzo (triste) dei platani *

ragazzo triste dei platani, non fare il finto tinto, dimmi cosa acuisce le tue pene e tarpa i tuoi sogni? cosa ti calamita in questi fatidici quaranta metri di marciapiede stinto, tra locali scialbi e ressa insignificante? perché, poi, ti lamenti del “by night” avellinese, birra plastificata in mano, sguardo mesto, vecchiaia nei polsi, quando lo alimenti colla tua presenza? dove vagano i tuoi pensieri, qual è il luogo del tuo “altrove”, la lercia amsterdam monda dalle inibizioni o un posto al sole nel kenya dei safari, la gerusalemme liberata o le steppe mongole?

ragazza triste dei platani, non barare al trucco, dimmi cosa smunge il tuo viso e rende i tuoi passi pesanti? quale pregressa scienza ti indica quando è il momento di mostrare il profilo, smuovere la folla, sederti sul muretto basso quel tanto che basta, spingerti quasi in strada in pasto ad automobili vocianti e semi immobili, che sfilano rubando attimi altrui e sputando dai finestrini “c’è meno gente di ieri, più di domani!”? cosa solletica la tua fantasia, una catarsi orgiastica, o più piamente, la speranza di rinvenire nel muro gommoso di folla, finalmente, occhi freschi da spiare, poi, solo eventualmente, da sposare?

ragazzo triste dei platani, non eludere le risposte, dimmi cosa ispira il fumo delle tue sigarette, quale paternalistica immagine hai dell’autorità per cui occulti il fumo, minimizzi l’azzardo di una ubriachezza così da nasconderti nelle viottole laterali quando non è il più momento di farsi vedere? quale guru iperreale prendi a modello per i tuoi vestisti sgargianti, abbrozzanture gelatinose, acconciature solidificate? confessa: quale verità scorre nelle tue conversazioni giocose, o quale bugia, in un spettro che va dal pettegolezzo trito alla speculazione filosofica de noantri?

ragazza triste dei platani, va’ dritto al succo, non divagare, spiegami chi è in, chi out nella rafferma movida cittadina, perché il neo-locale fighetto riscuote successo solo per i primi due mesi per poi marcire nel dimenticatoio? viaggi e presagi? quando è il momento di oltrepassare i confini cittadini, quando estendere quelli mentali? sussurrami, infine, cosa succederà quando pure l’ultimo platano malato sarà sradicato e verrà il tempo di guardare in faccia la luna?

*lo spazio antistante il "bar platani" è un tipico luogo di ritrovo della gioventù avellinese

10.8.06

Il migliore

maniaco dell’occhiuto ego-surfing stentavo a rintracciarvi da quasi dieci anni, dunque ben prima dell’ego surfing, quando su sedie a dondolo instancabili nascevano amori estivi, come mai, gli 883?, e il falsetto della parola “psicologia” strappava sorrisi beoti. quando, poiché erano ancora lontani i baci, un autografo della preferita lo si conservava nel diario, nella pagina migliore, forse la centrale. ora, invece, divenute più pingui o soltanto più porche, vi ritrovo, confinate al ruolo di virgolette, iniziale e finale, del viaggio. ognuno ha la sua strada. guardami negli occhi e ascolta il fruscio delle pagine che tornano dietro nel tempo, che strano effetto!

l’aereo romba e s’alza in volo. c’è una bomboletta d’ossigeno qualora ce ne fosse bisogno. roma che diventa, in breve, minuscola. chi vi sarà mai in quel puntino d’auto che scorre leggera? il colore del mare non è il blu. le montagne, talvolta, sono piatte. le nuvole, perforabili. atterra oltralpe, tra orologi di precisione di cui si fa a meno e banche d’affari in cui ci si fa un sacco. così le ambulanze sfrecciano tra i pedoni e medici d’assalto soccorrono infartuati in doppio petto. la guerra quotidiana dove regna la pace.

alla frontiera, si alzano le mani provocatoriamente e si mostrano carte d’identità che tardano a diventare tessere e si guadagnano l’ennesimo espatrio. gendarme che sorridi, sai indicarmi sul mappamondo schengen? ti ruberei il lavoro solo per ballare in equilibrio sulla linea immaginaria del confine e per poter requisire barattoli di marmellata. proseguire per stramangiare carni assortite e vedute notturne di temporali lontani, ginocchia rannicchiate, per i tormentoni sguaiati.

colpi così arrivano implacabili persino quando annunciati da sguardi preoccupati e improvvisi silenzi. la pietra raccoglie bene le lacrime fino a scalfirsi. passi muti su strade deserte, quando pure avere la testa alta conforta. uno in meno, costretto a rientrare. si continua perché il contesto lo esige. mi ritaglio un ruolo ulteriore perché non si nasce eroe e c’è sempre posto per camminare in testa al gruppo, quando i passi si fanno pesanti.

le città sfilano. le categorie con cui le giudichi restano immutabili. c’è un lungo inverno di letargo per assestare colpi alla coscienza. musei annichilenti. più vicino al codice da vinci che a leonardo, nonostante quello che si dice in giro (non su di me). piazze splendenti, palazzi che suonano, palazzi che gemono. barboni al vento, eleganza dimessa, per contro riluce nostra provenienza. ogni luogo comune conserva una radice verde. ogni luogo comune va sfatato.

corre il treno, corre. paesaggi da classica del nord. sul pavé della roubaix, scatterei oltre il dolore fisico. invece, quello tenue che origina dai rapporti umani sterili, finiti prima di iniziare, o che iniziano da una fine, prosegue infarcito di divertissement, avvertiti dal gingle della sncf, ed ha gli occhi disperati e il sorriso gratuito della puttana tolosana di colore che chiede tre euro per una bottiglia d’acqua.

"ad appagarlo bastava il fatto di viaggiare, che lo rilassava, riducendo i moti intimi, quelli che non lo portavano da nessuna parte, dove stava lui e lei non c’era, oppure dove stavano le sue ambizioni e lui non era ancora arrivato."
Bernard Malamud