28.2.09

il dott. lombroso cesare mai si curò di curare i deficit di attenzione

un cedimento del mio pensare, legato forse all’opera sotterranea di un deficit d’attenzione, mi fa augurare che finalmente uno studioso serio si occupi delle fisiognomiche dei tipi alla benito mussolini, alla vasco rossi, del loro stupefacente ascendente verso le masse nazionali. il prodotto interno lordo, americano e non, crolla inesorabilmente lungo i primissimi trimestri della nostra conquistata vita adulta, un giorno saranno evocati nelle aule universitarie, dissestate e non, dei corsi di economia. e nemmeno consolano le evidenze degli indicatori nazionali di felicità, da buona parte degli economisti eterodossi, il vero misuratore del benessere della gente, a guardare certe facce, a rovistare tra certi umori. una crisi globale richiede misure globali, prima che bancarotte sovrane attizzino angosce difficilmente calmierabili. per restare a noi, l’europa, alla politica monetaria comune affiancare la fiscale, rafforzare gli investimenti comunitari per lo sviluppo, cooperazione invece di protezionismo, possibile soltanto con il rafforzamento delle istituzioni rappresentative, parlamento in testa, e quanto vi siamo lontani… chi potremmo mai invitare a discutere di argomenti del genere in vista dell’appuntamento adatto, le elezioni per il rinnovo del parlamento europeo? è del tutto evidente che un numero consistente delle intelligenze nostrane sia oscenamente distratto da scelte di agenda setting. allora, continueremo a dannarci l’anima per le spinte autoritarie di un politico tanto inconsistente quanto ferrato in materia, dal dilemma capitale della tenuta di consensi del partito democratico, ché un suo cedimento si ripercuoterebbe prima sugli equilibri congressuali, dopodiché sulle prossime amministrative, poi sulle regionali, poi sulle politiche, per ritornare sulle prossime amministrative. il coinquilino ascolta i pezzi del festival: luca era gay. il paese, reale. il suo futuro, meno meno.

27.2.09

sorPassi

uscire fuori
da un lungo isolamento
e sentire la pressione tra la terra e il cielo
e poi guardarsi intorno
come la prima volta
e scoprire che non c'è nessun motivo
per vedersi da lontano
parlare con un altro sconosciuto
proiettare nei suoi occhi le risposte
e trovare le risposte che non hai
e ridere di gioia e di malinconia
e poi andare via.

e poi andare via soli
in un'altra direzione
legati ancora per un tratto da una scia di commozione
andare via
da sempre
e chissà se sarà vero
che ritornerai
se ritornerai.

uscire fuori – riccardo sinigallia



una settimana fa un furfante mi ha fregato lo zaino che mi accompagnava durante i miei giri. al suo interno, tra le altre cose, una storia del camminare, che proprio non riuscivo a terminare. la polizia stradale ha ritenuto il caso di scarsa o nessuna rilevanza. stasera, per un tempo che mi è sembrato lunghissimo, ho lavato i miei piedi, li ho accarezzati. la pelle sotto le dita è scorticata, segnata. per un momento ho creduto che fintanto mi sosterrà un malanno leggero come questo, la mia andatura instabile conserverà ancora la possibilità di un sorpasso.

9.2.09

liscio festival

certe notti, in auto a passeggio, sintonizzarsi su radio magic due, ai 105.20 megahertz ad avellino e dintorni, quando è in onda liscio festival, può rivelarsi un’esperienza onirica. forse l’effetto straniante è dovuto al recupero inconscio di uno spezzone radiofonico che registrò involontariamente il sonoro drammatico di una tragedia locale, poi divenuta gravida di conseguenze per l’intero paese. esiste un baratro tra l’elementarità delle esecuzioni proposte e l’immanità della sciagura che, per un mal funzionante meccanismo della coscienza, pare possa nuovamente scaturire solamente dal suono di quelle note. la rievocazione di quell’avvenimento, dei suoi esiti politici, economici, paesaggistici, mentre scorrono le strade, i paesaggi (sulle colline paesi sfiniti avvertono la propria (r)esistenza con pulsanti luci arancioni), si contrappone al ricordo di certe feste estive di paese, alle quali partecipavano allegri campanari, per l’evento calati a valle. danzavano com’esagitati al suono d’organettisti di chiara fama, ogni anno annunciati come campioni del mondo o d’italia, ma poco più che parenti, e l’evento della serata era l’esibizione del fenomeno decenne, spettacolare agli occhi ingenui della folla, perché le dimensioni dello strumento oltrepassavano la sua prevedibile capacità di tenerlo in mano. e il drappello di zie intorno, occhi pieni di lacrime&gioia, spingevano perché anche noi imbracciassimo una fisarmonica. orgogliosamente, scuotevamo la testa, convinti di un futuro maggiormente consono allo spirito del tempo. ora, che lo speaker ossessivamente ribadisce liscio festival, radio magic due e alla mazurka succede la polka, al valzer un arrangiamento con accenti country, continuiamo ad avere un rapporto problematico con lo spirito del tempo.

2.2.09

lettere da un esilio

noi siamo i figli e i nipoti del mondo dei vinti, di un’umanità immobile, tenacemente aggrappata ad una terra che non sempre possedeva. di rado ci si esprimeva ed erano epopee orali di guerre di bande e bande di musica dietro il santo ingioiellato. nel giro di qualche lustro, tutto subì una lacerante mutazione e le campagne furono investite da schegge di comunicazione. la maggior parte degli uomini, benché disorientata dal messaggio, partì abbacinata dal miraggio di ricchezza. noi siamo i figli e i nipoti di quell’emigrazione interna che ora produce segni talvolta piuttosto esteriori. irriducibili afasie o vistose logorree, crudeli detenzioni di corpi o stupefacenti esibizioni di cafonerie, esaltazioni improvvise e continui abbattimenti. il peggior nemico è sempre quello più vicino, articolo ottocentotrentadue del codice civile. il che genera una persistente insufficienza alla vita civile, un estremo bisogno di divisioni, invidie, retro pensieri. noi siamo i figli e i nipoti di una storia mal compiuta che non ci ha fatto italiani perché le visioni di noi erano troppo presuntuose, al limite del ridicolo. la risacca di oggi insegni quanto è difficile inseguire credendosi in testa, quanto è mostruosa l’umiltà di chi si crede indispensabile.

1.2.09

lettere da un esilio

il grosso della retorica politica locale, massimamente alla vigilia delle amministrative, si concentra sul tema del cambiamento. ma è paradossale che lo invochino politici che nel corso dei decenni né siano riusciti a innescarlo né abbiano significativamente modificato la propria idea di cambiamento che essenzialmente riposa nella semplice sostituzione del personale politico attualmente al governo con uomini di loro provata fiducia. una variazione del tema invoca una fantomatica chiamata in campo della società civile, dov’essa tutto pare tranne che civile, civica, intesa a socializzare. l’ossessività con la quale torno sul piano strategico, d’altra parte sollecitato da modelli comunitari di governance per la spesa di fondi destinati allo sviluppo di regioni in ritardo, risiede non nella bontà in assoluto dello strumento, che anzi è altamente complesso e non sempre in grado di garantire il successo dell’operazione di rigenerazione urbana che intende avviare. tuttavia, lo schema del piano, se funzionale, obbliga le élites politiche locali, e non solo le élites politiche, a misurarsi in con il problema del governo di una città in un’ottica strategica, ovvero proiettata al futuro. la città intesa come sistema complesso nel quale il potere pubblico incide con una serie di politiche pubbliche, i cui effetti sono talvolta in conflitto, nei diversi ambiti della sanità, della mobilità, dell’educazione, dei servizi sociali, dell’urbanistica, della sicurezza, del commercio. non un partito, non una leadership illuminata, non un dinosauro politico e la sua clientela sono in grado di riuscire a rispondere con esaustività ad un quesito di tale gravità. eppure il solo impegno a sfidarlo per l’intero, attivando amplissimi meccanismi di partecipazione collettiva, varrebbe il conferimento della rappresentanza politica. qualcuno che abbia il coraggio di affermare che gli è antipatico l’appello ad una meglio non qualificata società civile, quando poi quella risulta essere un’accozzaglia di amici degli amici, ma è prontissimo ad accogliere l’idea dell’ultimo derelitto cittadino, che assieme alla dignità ha conservato un nome e un cognome.