24.8.11

present continuous

nell'asfissia di un calore familiare degenerato,
nell'incertezza con cui curiamo i nostri rapporti umani fragilissimi,
nell'assenza di rispetto per il prossimo cui neghiamo i nostri occhi,
nei muri emotivi che nottetempo erigiamo,
nei silenzi impenetrabili che rumorosamente opponiamo,
nelle pose d'accatto che solo in presenza altrui assumiamo,
nella memoria condivisa che ad uso e consumo proprio oltraggiamo,
per l'irrefrenabile desiderio di scappare dalla terra rimossa verso una non meglio precisata terra promessa,
per l'incurabile presunzione di essere migliori dei padri ed al contempo inadatti a generare figli,
per la pomposità dei nostri annunci sparati in aria pur di non misurarli con le resistenze della terra,
nell'egomania perniciosa che muta ogni nostra discussione in risentimento personale,
per il gusto di ritagliarci un pezzo di verità da non condividere con nessuno,
per tutto questo ed altro ancora la nostra generazione sta perdendo

20.8.11

sottotony

prima persi il passato
per una continua mal interpretazione degli avvenimenti,
per lo sfinimento dei luoghi della memoria,
per l'accanimento altrui sui dettagli della storia.
poi non seppi più il mio nome.
eppure continuavano a chiedere
chi fossi
ed il perché delle mie azioni.
difficile credere che
non c'era calcolo nel mio oblio
quanto la messa in pratica
di una necessaria tecnica di sopravvivenza.

29.7.11

il canto degli irpini

fratelli d'irpinia
l'irpinia s'è desta,
del crine del lupo
s'è cinta la testa.
dov'è la salvezza?
che giunga munifica,
ché schiava di napoli
iddio la creò.
stringiamci a coorte
siam pronti alla morte
l'irpinia chiamò.

noi siamo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
raccolgaci un'unica
bandiera, una speme:
di batterci insieme
già l'ora suonò.
stringiamci a coorte
siam pronti alla morte
l'irpinia chiamò.

uniamoci, amiamoci,
l'unione, e l'amore
rivelano ai popoli
le vie del signore;
giuriamo far libero
il suolo natìo
dalla mondezza costiera
uniti per dio
chi vincer ci può?
stringiamci a coorte
siam pronti alla morte
l'irpinia chiamò.

dalla baronia al terminio
dovunque è lo stretto di balba,
ogn'uom di gaio ponzio telesino
ha lo spirito, ha il genio,
i bimbi d'irpinia
si chiaman uagliuni,
il grido d'ogni madre
al pranzo chiamò.
stringiamci a coorte
siam pronti alla morte
l'irpinia chiamò.

son giunchi che piegano
le spade vendute:
già lo stemma di napoli
medaglie ha perdute.
il sangue d'irpinia,
il sangue sannita,
bevé, col pontificio,
ma il cor le bruciò.
stringiamci a coorte
siam pronti alla sorte
l'irpinia chiamò

27.6.11

l'illuminazione del vallatrone

lo stato d'ansia che ci comprime
è direttamente proporzionale all'ambiziosità
dei nostri sogni irrealizzati

22.6.11

lettera ad un amico mai nato

l’idea di destinare una lettera a qualcuno che non esiste, se non nello spazio intimo compreso tra il sé e il fuori da sé, è un passo compiuto verso la follia, alla maniera del personaggio di saul bellow, herzog, che scrive ossessivamente a dio o al presidente dell’america, perché non riesce ad accettare se stesso. eppure è un atto necessario per sfidare la nostra identità confusa, intrecciata alla nostra epoca confusionaria, malata. per anni, abbiamo covato tutto dentro, fedeli ad un’immagine di noi edificata nell’adolescenza, avvinti al senso di colpa che ne è derivato, per la mancanza di fatti concreti. immagine in base alla quale tutti gli uomini sono uguali, il genio e l’abbrutito. tutti hanno pari dignità; tutti, a confronto con il bisogno di trovare risposta al dubbio estremo di una vita, la morte eterna o l’aldilà, ammutoliscono o straparlano e spesso può accadere che proprio i dotti zittiscano mentre gli stolti siano infusi dal dono dello spirito santo, la parola di dio. in ragione di una sorta di egualitarismo ideologico, un miscuglio di lacerti di socialismo e cristianesimo, - come diceva ignazio silone, “un socialismo senza partito e un cristianesimo senza chiesa” – costruire la nostra identità attraverso scelte precise ed escludenti diveniva un errore da evitare, al più un proposito nascosto o sub-cosciente quanto invece era decisivo rafforzare l’idea secondo cui qualsiasi contesto pubblico fosse identico per noi fatta salva la difesa di un minimo orgoglio di classe. essendo la nostra classe, di estrazione bassa, in baldanzoso ma in fondo insicuro ingresso nella media. e dunque, doppiamente colpevole per aver lasciato qualcuno, e talvolta più di uno, dietro: vite derelitte, esposte al vento di aie nascoste tra colline arretrate, nel senso di ritratte di fronte al mostro della modernità, dell’appennino meridionale. eppure l’uomo adulto impara, o è costretto ad imparare, presto o tardi, che l’immagine di sé costruita nell’adolescenza, il ninnolo intoccabile posato per lustri sulla credenza della sala degli ospiti, non è altro che l’attaccamento inspiegabile ad un fronzolo pur di ritardare l’ingresso nel disordine della vita, in cui non sempre esistono i buoni e i cattivi a tavolino, dove la verità è spesso un caleidoscopio composto dai riflessi di cento occhi, il frastuono fatto dal clamore di cento voci, per non dire degli odori e dell’amaro in gola. l’uomo adulto impara, o è costretto ad imparare, suo malgrado, che la posta in palio non è mai l’avverarsi completo dei sogni della propria adolescenza quanto, e forse enfaticamente, difendere nell’età di mezzo la stessa facoltà di sognare, di progettare la vita, possibilmente con gli altri. le riflessioni di cui sopra vengono dopo che negli ultimi mesi, vicini nati, diversamente da te, e pasciuti, nei quali percepisco la medesima ansia di crescere, mi hanno fatto bersaglio del pietoso giudizio di fuggire codardamente da me stesso, condanna spuntata basta leggere il titolo del blog, vecchio sette anni e sette anni ancora. noi che condividiamo l’infanzia negli ottanta del disfacimento civile, dell’istupidimento collettivo, che due su tre soccombevano agli inflessibili dogmi del consumismo mediatico, nella cornice di un paese impaurito come mai, la cui proiezione geopolitica diveniva l’ombra colta nel momento in cui la fonte luminosa è sopra la testa, dove l’unico insegnamento trasmesso era mai fidarsi, se non dell’immagine a brutto muso di se stessi. la diseducazione di viverci insieme ovvero contro, serrati nell’egoismo del non mi voglio precludere niente, come a dire lasciarsi libera la possibilità di colpire duro il prossimo o di scappare per sempre per non farci mai più i conti, evitare a tutti i costi il conflitto con gli altri, con se stessi, verso la novità di esperienze che sono il riproporsi di logori panorami umani. in luoghi immunizzati dal pericolo della diversità, dell’integrazione del marginale, della convivenza al di là dei conflitti, spazi costruiti per disperdere non la violenza ma l’esprimersi stesso della vita urbana: ricchi vivono tra i ricchi, divertendosi da ricchi, oppressi dal timore di perdere il proprio status, i restanti tutti a tentare di imitarli, a prenotare, invece di fine settimana, una mezz’ora buona nel centro benessere fuori porta ma apparentemente non più fuori portata. nel progressivo depauperamento di contenuto della sfera pubblica dell’esistere, si cotona in maniera ipertrofica il centro centralissimo dell’ego, il mondo degli affetti privatissimi, per cui se cade un meteorite sulla testa sarà colpa dell’occhiolino irridente che un attimo prima ho fatto al cielo. insomma è questo uno sfogo urlato e pasticciato, illogico o smemorato, non perché abbia perso la fiducia o la speranza, ma perché sono consapevole che non ritornerà mai più la sconfinata fiducia o speranza di anni fa, ché l’umanità, a dirla in breve, se si salverà sarà ad opera di minoranze a favore di minoranze, non per l’attuarsi di un’ideologia messianica ma per migliaia di limitate opere di buona volontà. realizzate per lasciare un mondo un granello migliore a chi poi verrà.

14.6.11

con quella faccia (sempre) un po' così

siamo più impressionati quando il paese cambia a nostro favore
che non il contrario

10.6.11

mi sento fortunato

imbuco le mie lettere nella barra di google
ma non tornano mai le risposte che desideravo
ed è una deriva d'umanità da evadere con i sogni buoni
come la fatica di usare di nuovo le mani

6.6.11

la storia fatta con i sentimenti

nel cuore dei balcani leggiamo in controluce la nostra storia, recente o perenne, di disgregazione di una società che lì ha portato una guerra sanguinosa e a divisioni laceranti, qui sembrerebbe non produrre nulla se non un'impressionante trasformazione dei nostri corpi – altrove leggi mutazione antropologica – perché evidentemente noi la violenza la somatizziamo.

1.6.11

24.5.11

lo stato italiano

invocare una legge che non c'è per spiegarne una mai attuata

17.5.11

sono arrivati i marxiani

in questa transizione turbinosa, interminabile, da una folle epoca di chiusura in se stessi ad una sorretta da una fiducia luminosa nel dopodomani, di rado distinguiamo il corpo malato del paese dal nostro, così che gli orrori del primo segnano in profondità la nostra carne, che diventa un paesaggio sbrindellato dalla furia di costruire, camuffare, invece di conservare l'armonia dell'esistente per imparare ad apprezzare la distanza tra le cose, passando dall'atteggiamento di chi interroga il mondo a quello di chi lo contraffa'... è il capitalismo, bellezza ma non durerà per sempre.

16.5.11

noi crediamo

...che si tornerà a parlare

11.5.11

morale del familismo immorale

la storia della nostra terra, circostanza che al tempo stesso è la nostra tragedia, è scritta o da uomini che trovano il proprio nemico nella propria famiglia e, in un modo o nell'altro, finiscono per soccombervi o da uomini che facendosi forti della propria famiglia ne combattono ferocemente un'altra; in questo caso, le possibilità di successo personale sopravvivono ma sempre a scapito del bene comune.

10.5.11

ragazzi in gambia

morta la politica
ci manca la società
perduto il corpo
ci angoscia la mente

8.5.11

latin over

mi sono smarrito così tanto negli ultimi tempi
che ora lascio inselvatichire intere aree della mia coscienza

5.5.11

resisti dera'a

a luciano manara

all'idea di rimettere la testa sotto la sabbia

2.5.11

troppo forte, incredibilmente vicino

l'abitazione in cui si nascondeva e ha trovato morte osama bin laden assomiglia ad un esterno di casa abusiva calabrese in cui si trascorrevano le ferie estive. nei pomeriggi di calura insopportabile, si era costretti a leggere e ricavare giudizio da romanzi voluminosi, ottocenteschi, o al massimo primonovecenteschi, che più tardi avremmo compreso essere espressione di una cultura in cui lo stato democratico che esegue una sentenza di morte nei confronti di un singolo uomo, pure se ritenuto il demonio in terra, senza che sia celebrato regolare processo, non deve essere considerato uno stato di diritto

26.4.11

la cava del camorrista di fronte

in riva al ruscello capiamo finalmente di essere fatti così (e così)
un tempo volevi scappare di casa, ora non sai se ne avrai mai una
grazie alle cave che punteggiano queste colline hanno edificato
i quartieri abusivi delle città in cui emigriamo, in cui siamo affittuari in nero
negli stessi cantieri lavorava lo zio: una brutta canaglia di pittore
ora sua figlia è entrata nella compagnia delle opere, questione di entrature
un altro cugino è piombato in depressione ma finge sia un mal di testa forte
intanto quanti super santos che volano alto, che sfondano rami secchi
in una woodstock irpina per intima convinzione di pochi
la pizza chiena è rock & roll come gli anni che viviamo
e non ascoltiamo la stessa musica di sempre
quanto scorriamo febbrilmente la playlist dei nostri ridicoli ipod
in cerca di un motivo che possa entrare nella testa del vicino di sedia
riconosciamo i nostri limiti e sotterriamo la penna per mai più usarla
d'ora in poi per chiarirci le idee, ci stenderemo, come gli avi, sotto una cerza

20.4.11

noi sud

o d'emozioni muti o ebbri di gioia
la nostra follia è troppo umana

14.4.11

bisaccia addosso



Caro Arminio
io sono il tuo paese. Ora mi chiamo Bisaccia, ma prima di questo ho avuto altri nomi e c’è stato un tempo in cui non avevo nome. Stavo qui, terra al vento, terra e carne di un perenne sgomento. Vennero alcuni pastori dalle steppe dell’Eurasia. Era un giorno di giugno. Si fermarono qui in silenzio per alcuni millenni. Erano pochi e non divennero mai tanti. La vita allora era diversa, non c’erano recinti, non c’erano proprietà, non c’era ricchezza da accumulare. Raccoglievano erbe, uccidevano le pecore, tessevano e vendevano la lana. Adesso hanno raccolto alcuni pezzi del mio passato. Nel castello c’è la donna, che hanno chiamato principessa, sepolta col suo corredo molti secoli prima che Cristo salisse in croce.

Avevo deciso di raccontarti la mia storia caro Arminio, ma so che dopo un po’ ti annoi. Volevo ringraziarti del tuo scrivere continuamente di me. Lascia stare per un poco però la polvere dell’attualità. Scendi, affonda, vai nelle cantine dei secoli. Vieni a trovarmi nelle vene della terra, ferro e ruggine, lingue morte di serpenti e fiati e bocche di chi parlò vanamente. Vieni a vedere l’ossario che c’è sotto ogni paese, scava, lasciati amare, lasciati trascurare, lasciati ingannare, lascia la colla dei minuti, tu sei nato per soffiare come il vento, sei nato per andare via ogni giorno, vai ti prego, lascia stare queste ombre col muso sporco, questi cancelli, questi cuori a imbuto. Lascia le parole che ogni tanto dici per essere come gli altri miei figli. Io sono il tuo paese e il loro. Io sono il paese di Pinuccio e Peppino, il paese degli scapoli, dei vicoli dove passa solo il vento.
Sorridi ogni tanto a quelli che incontri, sfiorali con gentilezza e poi sparisci, tu non sei un uomo nato qui. Tua madre se n’è accorta subito, per questo ti trattiene, lei sente che non sei suo e tu ti ostini a pensare che non sei di nessuno. Continui a dare più attenzione alle ingiurie che agli affetti. Stai qui non per vivere ma per tenere in vita la tua paura della vita. Te la prendi con me e con il tuo corpo, pensi che siamo la tua prigione e non la finisci mai di lagnarti, non ti basta mai niente. Dillo che non sei dentro di te, dillo a tutti che quello che hai scritto è ancora solo un piccolo esercizio e che ti stai preparando per squarciare il petto a quel vecchio ragno che si chiama Dio. Non chiuderti dentro l’armadio del tuo mal di stomaco, del tuo mangiare per spiare il male, per affondare le farfalle che ti prendono la testa e la fanno volare.

Lo sai che ti guardo, so tutto di te, anche che adesso ti sei fatto crescere la barba e che nella tua casa si è rotta la caldaia dei termosifoni. Mi consola il fatto che ci sei, però non mi piace che combatti la tua impazienza, vorresti farla più piccola, accogliente. Tu non sei fatto per accogliere, per stare fermo ad aspettare. Tu devi scendere in me, ascoltarmi, la tua carne non sa fare altro che ascoltare, è una carne a bocca aperta, il tuo cuore è disteso sulla lingua e il filo di sangue che ti attraversa è felice come un bambino che non è andato a scuola.
Ti ricordi le grandi nevicate dell’infanzia, i passeri, le tagliole che metteva tuo cugino? Lo so che ti piaceva la neve che saliva. Adesso la neve non arriva, viene spalata in cielo, prima di cadere. Adesso c’è questa nebbia vergognosa, i vecchi del centro anziani sono rimasti in cinque, non si vedono galline, non ci sono più i muli, certe sere la piazza è piena di macchine parcheggiate ma in giro non si vede nessuno.

Io sono il tuo paese, sono la somma delle case, sono ogni tegola, ogni scalino, sono ogni gatto, ogni luce sul comodino, sono i vecchi delle vie fredde e cupe, i giovani delle ville sperdute, sono il grano che comincia a crescere, sono la pala eolica, la quaglia, la rondine quando arriva. Sono il freddo che conosci bene e che prima ti piaceva tanto e ora ti fa paura. Ti vedo uscire incappucciato, non entri mai in un bar, non giochi a carte. Hai paura di sederti, senti che quella è una trappola, ma ti sbagli, e sbagli a stare in casa a farti una tisana, a fare colazione con biscotti e camomilla. Vai al bar, beviti un caffè senza paura, passeggia con chi capita, spreca il tuo tempo, fattelo rubare, non averne alcuna cura.

Lo so che sei sempre in ansia, lo so che hai paura di morire. So che scrivi ogni giorno e che adesso non hai problemi a vedere stampati i tuoi libri. Potrei citarti ognuna delle tue poesie. Quando parli di me sembri più ispirato. Quando scrivi dei paesi le tue parole hanno leggerezza e peso. Quando parli d’altro sembra che giri a vuoto. La verità è che mi hai scelto per capire il mondo, la verità è che io sono la tua sposa, tuo fratello, il tuo incubo e la tua speranza. Lo sai, c’è un piacere o un dispiacere dell’abitante verso il suo paese, ma c’è anche un piacere o un dispiacere del paese verso il suo abitante.

Lo so, ho un cattivo carattere. Ogni paese è diverso da un altro, lo hai scritto tu che non ce ne sono due uguali. Anche in questo io mi sento come te, sarà per come sono fatto sotto terra, crepe e argille sciolte. Sarà per questo mio essere in mezzo a tre regioni senza di fatto appartenere a nessuna di esse. Io non sono Campania, né Puglia, né Lucania. Ho un clima da nord Europa. Solo poche case sono girate verso sud. Sono la Bisaccia appoggiata su un cavallo tremante. Niente è fermo in me, sono un paese che naviga nell’argilla con le spine nei fianchi.
Tu sei in me solo da mezzo secolo. Io sono in me da millenni. Ci si stanca pure ad essere un luogo, si perde entusiasmo. Alla fine è sempre un vedere il sole che nasce e muore, alla fine ti senti un pretesto per far girare il cerchio storto delle stagioni. Puoi sentirti come vuoi, sempre qui resti, a prendere freddo e terremoti, a prendere il vento che qui viene pure da sotto. Questa l’ho sentita da te, tu lo chiami il vento del thanatos.

Lo sai che per me è difficile capire dove finisco e dove comincio. Il cielo mi appartiene? Mi appartiene la terra nel profondo della terra? Anche un paese ha i suoi problemi di identità. Ha la sua coscienza e il suo inconscio. Le sue simpatie e le sue antipatie. Potrei dirteli uno ad uno gli indegni di abitarmi e so che ti piacerebbe, ti piacciono i ritratti di una riga, ma so che mentre mi ascolti ti distrai, pensi al tuo cuore, pensi al fatto che ti sei stancato di stare qui.

Lo so, avresti bisogno di stare per un poco da un’altra parte. Se vuoi puoi andare, non sono io che ti trattengo. Sai bene che altrove ti senti perso. Non riesci a crederci che puoi lasciarmi, non ci hai mai creduto. Forse perché qui in fondo non ci sei mai stato. Lo sai che ti conosco e so bene che io per te sono un pretesto, un modo per farti avvistare, per vedere se qualcuno viene a vederti. Sai pure che quando questo accade la cosa ti innervosisce, è come se tu volessi prolungare a tutti i costi il disagio, l’incomprensione. Ti sei troppo legato a ciò che ti è mancato, ti sei troppo abituato a tremare, a pensare all’imminenza della morte. Ti piace questo stare in bilico, ti piace il fatto che ti stanco, che ti porto al limite dello sfinimento. Tu credi che non posso darti altro che scrittura. Adesso esci troppo raramente e sempre con la macchina fotografica o la telecamera. Se non trovi una faccia interessante ti rivolgi ai muri, alle finestre. Hai fotografato ogni pietra, ogni portale, conosci a che ora arriva il sole su quella panchina, ma niente serve a distrarti e non finisci mai di pensarti, stai sempre in mezzo ai tuoi pensieri. Ti ho visto tante volte che hai lasciato il computer, ti sei alzato con l’idea che stava per arrivare il momento fatale. Qualche volta sei rimasto a casa, altre volte hai preso la via dell’ospedale. Ci sei entrato poche volte, ti bastava avvicinarti. Lo so l’effetto che ti faccio in certi giorni d’inverno, lo so che ti senti come una mosca nella bottiglia. Quando c’è il sole prendi la bicicletta e allenti un poco la tensione. Quando vai in giro per gli altri paesi e stai lontano dal computer la giornata fila senza troppe ansie. È qui che ti faccio male, ma stai tranquillo, faccio male anche ad altri. Li vedi quelli che girano tutti i bar, quelli hanno la tua età e sembrano già morti. Forse qui si salvano solo quelli che hanno meno di vent’anni e più di ottanta. Chi sta in mezzo o è agitato e sconnesso, oppure è in preda all’accidia.

Tu almeno hai capito come sfruttarmi. Mi usi come un laboratorio, sono il tuo esperimento. Ma guardati con distacco, non ti affannare, pensa ai ragazzi che vanno a lavorare alla Fiat e che fanno un’ora di macchina all’andata e una al ritorno, pensa quando partono d’inverno alle cinque del mattino. Pensa ai morti al cimitero, alle persone giovani che sono morte di cirrosi senza mai abbracciare una donna: erano qui pure loro. Quando eravamo novemila abitanti, quando stavamo stretti io mi vedevo poco. Adesso che siete in meno sembra che ognuno di voi voglia prendersela con me.

Io sono il giorno di Sant’Antonio, sono il sogno di tornare di un emigrato in America, sono un ragazzo che non vorrebbe mai andarsene, sono quel vecchio che non vuole morire, sono un avvocato disoccupato, sono una ragazzina che vaga col suo telefonino. Guardati in giro, nessuno risolve niente, si tratta solo di accogliere questa inesorabile verità. È inutile che mi usi come un pescatore usa un fiume. Sei un pescatore della desolazione, è un pescare a vuoto, è un pescare il vuoto.

Non puoi tirare avanti in questo modo, te lo ripeti almeno da una decina d’anni. Ormai mi somigli, ormai ci confondiamo. Una volta un critico ha detto che io esisto grazie a te. Si riferiva alla fama, immagino. Lo so che molti lontano da qui sanno il mio nome per merito tuo. Cosa vuoi che me ne faccia della fama? Un paese non ha ambizioni di essere conosciuto. Un paese non si aspetta niente dalla vita. È una cosa che esiste e si trasforma, una cosa che nasce e muore e dopo nasce di nuovo. Un giorno non ci sarà nessuna casa eppure io sarò ancora qui, la luce arriverà e arriverà la pioggia. Tu non ci sarai, lo so che ti fa orrore lasciarmi, lasciare il filo della terra, ancora non ti fai sommergere, ancora non ti fai bagnare dal pensiero che siamo destinati alla morte, cioè all’eterno dissolvimento. Ci sono persone morte diecimila anni fa e ancora non smettono di dissolversi, ancora c’è qualche atomo che si squarcia, che perde i suoi elettroni in questa poltiglia universale.
Tu non devi più occuparti della morte. Preoccupati di mangiare meno e di camminare di più. Non pensare a quello che ti può accadere. Sembra un pensiero facile, ma davvero c’è solo da cogliere l’attimo, c’è solo da pensare alla grazia di essere qui, di essere una parte del mondo, una parte unica come ogni altra. Vedi, adesso cade qualche fiocco di neve, so che più tardi vorresti uscire a filmare il paesaggio o a fotografare le mie porte chiuse o le mie porte murate.
Ora non è il caso di parlare di sindaci incapaci, non è il caso di parlare dei professori di scuola media che nulla hanno fatto per me. Non è il caso di parlare di persone piantate nel cemento delle loro case e neppure dei maldicenti che corrono per la piazza a passi brevi. Sono storie vecchie, ormai sei fuori, non ti riguardano. Sei qui solamente per partire, per riposarti tra un viaggio e l’altro, stai qui a scrivere d’altri paesi e io non mi ingelosisco, ti lascio fare, so che alla fine comunque parli di me, so che stare con me è più sano che stare con qualcos’altro.

Esci allora, esci anche stamattina. Magari ti passa anche il mal di stomaco. Io resto, non mi muovo, la mia natura è restare, è prendere la forma che la storia e gli uomini mi sanno dare.
Adesso la mia forma mi piace. Per voi è rotta e sconsolante, ma io trovo che sia unica e che va oltre il bene e il male. Io non diverto, non attraggo. Sono impervio e rude, non rilasso, faccio innervosire. Chi vuole il frivolo e il piacevole vada altrove. Io sono oltraggio, mancanza, maldicenza. Sono rancore a oltranza. Questa però è solo apparenza. In fondo ho un cuore buono e inerme. Sono mite e distratto, non bado a imbellettarmi, a darmi arie. Non penso a proteggermi, non mi sottraggo a niente. Potete anche lasciarmi solo, non ve ne farò una colpa. Sarò sempre qualcosa, anche se mi dimenticate, se mi seppellite. Tu questo lo sai bene, tu sei provvisorio e io definitivo.

Poco fa pensavo che mi è venuta l’idea di dirti cos’è un paese, posso dirlo solo a te che hai inventato la paesologia. Un paese è un dio, un dio locale. Quello che non funziona nell’idea di Dio spacciata dalle varie religioni è che sono sempre idee enormi, mai circoscritte. C’è sempre questa frenesia dell’infinito. Forse erano più veri gli dei pagani, uno per ogni cosa. E allora Bisaccia non è il nome di un paese ma il nome di un dio, il tuo dio.

10.4.11

goodbye baiano

la malinconia di certe traversate solitarie di giovani fidanzate nel deserto di piazza macello quando il bus per roma è appena partito, e con esso l'amore, ed è spazzato come per incanto il folle corteo d'auto, l'incrocio di sentimenti forzosamente affiorati sulle labbra di gente che ha l'emigrazione scolpita nell'asimmetria dei volti. alla prima curva, un uomo di colore, subsahariano, ci saluta sorridente ed il bello è che basta sollevare lo sguardo e scorgi qualche massaia sul balcone che osserva, con gli occhi lucidi. proprio noi che salderemo il debito dello stato con il contributo di partecipazione ai concorsi pubblici che mai ci aggiudicheremo. noi che di notte scruteremo la volta del cielo per raccogliere le ultime illusioni cadenti. all'ombra di montevergine più spelacchiato che mai, ma dalle cui dorsali finalmente scende vino bianco. oggi che la squadra di calcio è costretta ad indossare una maglia nera come l'ultimo classificato dei grandi giri ciclistici, di nuovo qui a maggio, accolti come sempre dagli ululati scomposti degli spettatori che attenderanno per ore i corridori, ai bordi delle strade. allora sarà probabile che il governo berlusconi sia ancora in sella e la sciagura sarà di vedere altri amici assuefatti all'idea dell'ineluttabilità del non-è-possibile-cambiare-niente. e tu no, tu pure non o saje.

8.4.11

il civil servant

ci pagano per mettere attorno ad un tavolo
impiegati pubblici indolenti
per facilitare la comunicazione tra balbuzienti
per far mettere nero su bianco a responsabili monchi
per recapitare pacchi di documenti in uffici di carta strabocchevoli
per far pesare la disorganizzazione, la perenne mancanza di risorse
dopodiché senza di noi, qualcosa farebbero peggio
ma il complesso resterebbe uguale
perché aggiungiamo benzina nel serbatoio
di un motore che abbiamo contribuito a sfondare

31.3.11

la fine della blogosfera italiana

nel tempo presente, lo sbigottimento che viviamo
è l’unica traccia di razionalità ravvisabile
in persone che hanno vissuto nel giro di sole due generazioni
il passaggio dalla premodernità alla postmodernità

27.3.11

lo sprawl a roma

belvedere del gianicolo
casalinga ammira la città che si distende a vista d'occhio
e sopraffatta da quanto vede, esclama
"troppo hanno fatto!"

26.3.11

i bui recessi della centrale idroelettrica

salvaguardiamo beni comuni come l’idea di camminare senza meta
senza ideali da urlare, in questa città che ci muore,
noi con ciuffi di campagna che ci spuntano dalle orecchie
che però abbiamo dimenticato il nome degli alberi, delle piante
e siamo costretti dal lavoro a raderci via il dispiacere ogni giorno
e prendiamo il vento in faccia della metro che arriva
ascolto i tuoi pianti lontani in una stanza stinta come la mia
le mie lacrime le raccolgo nel bicchiere poggiato sul lavello
il nero dei nostri affitti sarà reinvestito nei colori dei gelati all’angolo
incerti tra una impegnativa solitudine ed una precaria compagnia
chiusi come ricci, con le valigie già pronte per scappare in un’america come questa
oppure per un veloce autoscatto nella steppa mongola, e non importa se sarà tundra
c’è tanta paura nel gesto dei tuoi polpastrelli che estraggono notizie dallo smartphone
l’aria di rivoluzione non nobiliterà il nostro immobilismo,
siamo suggestionabili sia sull’amore che sulla guerra
nell'inesausta attesa di un risolutore che ci sollevi dalla fatica della libertà
così ti invocheremo per farti tornare dall’estero
ma appena sbarcato ti feriremo a morte con la nostra naturale dose di freddezza

23.3.11

aria di rivoluzione

effettivamente
amerei di più
oggetti di cristallo
che palloni gonfi d’invidia
guadagnerei di meno
e mi direbbero
comunque: “sprecato!”
perché tale è il destino
di chi sogna rivoluzione

22.3.11

gheddafi: il figlio di preziosi

questo nostro mare assomiglia, già da tempo, ad una frontiera marittima
che si estende dal levante al ponente separando l'europa dall'africa e dall'asia minore.
l'identità dell' essere vi rimane tesa e sensibile,
invece l'identità del fare riesce con difficoltà a compiersi e soddisfarsi.
pedrag matvejevic, da la repubblica del 21 marzo 2011



e non abbiamo più i titoli per disputare di politica mediterranea o quant’altro
perché ci siamo rinchiusi in casa a seguire il serpentone delle news
una processione nella quale in testa c’è l’oro del santo, il petrolio,
in coda, alla rinfusa, scristianizzati che discutono di una velina, del pallone,
però l’unico effetto che risalta, stordisce, è la nenia delle preghiere delle anziane con il cero
esecutrici di un rituale di cui sono carnefici e vittime

20.3.11

un poeta di nome manolo calzati

intraprendeva letture
che non lo convincevano
e tra sé e sé diceva
un giorno scriverò
io solo come nessuno mai
dell'amore perduto
tra i binari della stazione
ed uno spicchio di luna

16.3.11

italia 150

tricolori
afflosciati
lacrimano

15.3.11

decalogo, a uso personale, di sentimenti morali

arrestare il flusso nefasto di info e immagini
l’infotainment di sé per se stessi
imporsi due o tre regole morali
l’amore per il prossimo
accogliere le idee altrui
lavorare per frutti che germoglieranno dopodomani
non aver mai paura di se stessi
dopodiché come dimenticarsene

13.3.11

cantonata scanzonata

non vivo in me
forse a gesù non crederei
se fosse qua
razzi arpia inferno e fiamme - verdena

poiché non sopporto di rimanere in casa ad ammuffire, anche se il tempo è brutto, nei lunghi pomeriggi domenicali liberati dal lavoro, esco in strada e mi metto in cammino. camminare aiuta a pensare. così mi rendo conto che una delle nostre sventure è quella di essere un popolo orgogliosamente casalingo, poltrone – il cui massimo appagamento è di riposare dopo il pranzo domenicale sullo stesso divano in cui s’assopiva il nonno - bloccato dai più comuni fenomeni atmosferici, acqua e vento, come fossero spade infuocate che cadono dal cielo. esco fuori di casa ma non posso fuggire l’urbe disseminata e dispersa, o almeno il quadrante che di essa frequento, oramai battuto palmo a palmo, forse alla ricerca di moderne capanne di gesù bambino, di una rivelazione che può nascondersi soltanto nella periferia più degradata ma ancora, in via del tutto ipotetica, palpitante di vita. la verità è che se è vero che la scrittura buona sgorga pura da un stato di malessere prolungato, luogo comune ripreso ultimamente da rapper-cantautori che da adolescente marcavo duro a calcetto non per tattica ma per la loro insopportabile burbanza, dovrebbe essere vicino il tempo del mio capolavoro. ma un capolavoro viene fuori dopo ripetuti esercizi - mentre io frustro il mio presunto talento – e poi un capolavoro, a rigor d’etimologia, è un manufatto frutto di una serie di regole tecniche ed estetiche che ignoro, condivise da un gruppo di artigiani di cui non mi sento parte. ad ogni modo, è un fatto che mentre il tempo passa inesorabile, e fratelli e cugini e madri e figli riscoprono la scrittura come un modo per infliggere il proprio segno nell’umana tenzone - che ora pare sia sinonimo di twitter -, guadagno la consapevolezza che in passato ho scritto qualcosa che vale, degno forse di pubblicazione nei tipi delle edizioni ripostes, probabilmente dopo accurato e notturno lavoro di editing. tutto ciò è un pensiero stupido e vanaglorioso, lo so, ma sarà che, all’angolo con casale dei quintiliani, la madonnina di ceramica mi sorride mentre una busta di plastica sventola gonfia ed indifferente su un ramo.

6.3.11

amor vacui

che credibilità può mai avere una generazione la cui educazione sentimentale
è compendiata nella canzone "gli avvoltoi" degli 883?

1.3.11

poesiola delle sette ed un quarto

ci vuole metodo per ingabbiare il talento
che altrimenti muore lentamente
e non lo diceva solamente neruda
passare la cornetta del telefono ad un sordo
è un modo per declinare la responsabilità
di una risposta che non si conosce dove stia
della verità s’intravede solo la scia
acceca, illude, svia
perché è creata dall’immaginazione
ma si raccoglie soltanto in strada

27.2.11

sul napoletano errante

sento che esiste una forte relazione tra la tradizione napoletana e la tradizione ebraica: c'è una somiglianza tra i due popoli, hanno sofferto le conseguenze della guerra, hanno patito conquiste, epidemie, povertà e come conseguenza di questa vita hanno dovuto lasciare spesso le loro case, viaggiare in cerca di fortuna intorno al mondo. oggi trovi ebrei ovunque, proprio come trovi napoletani dappertutto... c'è (una) cultura che nasce dalla sofferenza, c'è la malinconia ma anche il sense of humour: io credo che chiunque abbia sofferto nella vita ne produca tanto per poter resistere alle avversità

noa, da repubblica di oggi

* il titolo del post è mio ma google documenta un altro blog che utilizza la stessa immagine proprio a riguardo di un'esibizione di noa: qui

26.2.11

via del casale galvani

pier paolo pasolini vive ancora in questa città

25.2.11

inspirare, ispirare

dovrei imparare a disegnare i volti di chi mi è accanto
su carta, riuscirei a fissare i pensieri che mi ispirano

foto da qui

22.2.11

grammar paradox

l'italiano per correggersi dovrebbe ripetere i verbi servili: potere e dovere

14.2.11

del buonismo (indistinto)

la benevolenza rivolta genericamente al prossimo, qualsiasi forma umana esso assuma, non è socialmente accettata quanto una passione d'amore, esclusiva, folle, che però non riesce a nascondere la sua carica di violenza per tutto ciò che la minaccia, per quanto le è estraneo. ciò perché fondamentalmente l'istinto dell'uomo è animale. l'animale si fa sociale solo in seguito e comunque non sempre o non del tutto.

la libertà è una parola nel vento

il liberalismo, come movimento di idee da cui originano in europa e poi si diffondono nel mondo le attuali forme di democrazia, si impone a partire dalla seconda metà del seicento, in inghilterra, grazie a pensatori come giovanni locke, con opere quali due trattati sul governo (1690), in cui si contesta l’assolutismo del monarca, i suoi pretesi diritti (divini) a governare, mentre quegli stessi diritti (naturali) si reclamano per tutti gli uomini (il popolo), in particolare per il ceto borghese: sostituire la vita di corte con il parlamento. l’esistenza di una forma di governo democratica garantisce la salvaguardia dei diritti fondamentali: di pensiero e parola ed espressione, di uguaglianza, di giustizia, di religione.

trecento e passa anni dopo, in italia, è urgente abbattere il governo attuale, e accantonare il suo capo, presunto alfiere delle libertà, proprio perché totalmente alieno da qualsiasi nozione di seconda mano di cultura liberale: possiede, nel paese, la quota più cospicua di ricchezza, circostanza che lo accomuna ad un monarca moderno, ed una buona fetta della sua ricchezza gli deriva da un impero mediatico (la televisione, cattiva maestra, potere disumanizzante e potenziale rischio per la democrazia è una tesi di un altro filosofo liberale, carlo popper) che utilizza, fin dal primo giorno della discesa in campo, per fini politici e dunque di censura dell’avversario.

infine ama riprodurre nelle sue regge la vita di corte, con giovani donne, gratificate da doni milionari, e talvolta da cariche pubbliche così come accadeva per i privilegi concessi ai nobili delle passate monarchie. dunque un passaggio dalla nobiltà di sangue alla nobiltà da fiction televisiva. dunque, benché ciò che pensa sulla giustizia sia indicativo della sua concezione della democrazia e le pendenze giudiziarie che incombono sul suo capo, qualunque ne sia l’esito, rivelatrici del suo rapporto per lo meno spregiudicato con la legge, ciò che lo dovrebbe condannare in perpetuo all’irrilevanza politica è l’assoluta incompatibilità della sua figura con il liberalismo.

un potere assoluto che invece di discendere da dio, proviene dalla tv.

12.2.11

la cura del sé

oggi è del tutto evidente che una questione bruciante consiste nel come il corpo e i suoi bisogni si accordano (in senso musicale) alla mente e ai suoi desideri. e le incertezze con cui nel passato si sono affrontati temi come questo rischiano di pesare come censura nei giorni a venire.

5.2.11

qualcosa per l'introversione

l'irpinia è piena di persone che corrono a secondigliano o scampia
per rifornirsi di sostanze che possano aiutarle
anche soltanto a chiacchierare
nel viaggio di ritorno

18.1.11

duemilasettecento anni o poco più di ruby

viviamo in un paese che è in grave depressione perché non accetta di morire

20.12.10

tolstoj alla feltrinelli di viale libia

tutti i natali delle famiglie felici si somigliano
ogni natale delle famiglie infelici è invece disgraziato a modo suo

17.12.10

via cave di pietralata sans papier

ogni santa mattina attende paziente
accovacciato lungo il muro sbreccato di un vuoto
lo spuntare del primo raggio di sole
dalla linea sbracata dei palazzi di fronte
la fortuna dell’emigrante non gli ha arriso
ma ha scoperto una parte di cielo che l’est non conosce

15.12.10

appunti su un martedì

un uomo che si raffigura servitore di stato, indebitamente incravattato per un colloquio di lavoro in una società parapubblica, nel trambusto di porta pia sfoglia numeri anni cinquanta de “il borghese”, settimanale fondato e diretto da leo longanesi, fortemente critico dell’allora partitocrazia. partitocrazia icasticamente rappresentata, nelle pagine centrali del settimanale, da gigantografie di politici, cardinali, signorine di compagnia, colti di sorpresa, a confabulare nei palazzi del potere, a gozzovigliare nelle ville abusive sull’appia, l’occhio curioso che scruta e svela il poco del potere, operazione culturale negli ultimi anni fruttuosamente recuperata da dagospia. rumori di elicotteri, sirene della polizia, d’ambulanze, slogan ritmati dei cortei di protesta che giungono smorzati.

bambini in fila marciano ordinati a piazza barberini, si specchiano nell’acqua della fontana del tritone, realizzata da bernini, indicano i quattro delfini, ammirano la traiettoria dell’acqua che cade, mentre le maestre intonano le canzoni di natale, tocca farle imparare a memoria nei pochi giorni di scuola che restano. il cinema è aperto per proiezioni su prenotazione anche di mattina, telefonare orario pasti. turisti australiani s’allontanano frettolosamente dal centro e scrutano interrogativi i passanti per capire dalla faccia chi possa dare agevolmente informazioni in inglese.

là dove via del corso sbuca su piazza venezia, in quello spazio che sulle mappe geografiche viene indicato come il centro del centro di roma, blindati della guardia di finanza impediscono di passare. un giovane finanziere di mesagne impugna stretto il suo scudo trasparente che riflette l’ansia in cui è stretto. il giorno prima, al telefono, la madre anziana gli ha chiesto quando ritorna a casa per le feste natalizie e lui non ha saputo rispondere, perché non sa più tornare da quando ha deciso di andare via. il collega più anziano che ha vicino lo scuote dall’intontimento e gli intima di respingere il flusso continuo di curiosi che chiede di passare, grida, per piazza venezia girare a destra e poi di nuovo a destra, ma cambiare direzione è meglio.

8.12.10

il paradosso che ci scortica

lottiamo contro le nostre radici infette
e contemporaneamente
contro l'idea di reciderle, andare via
e vivere senza

bozzo di programma

chi fosse ancora perplesso su come reagire alla caduta delle ideologie, rammenti che la matrice di ogni problema politico resta la diseguale distribuzione del reddito nazionale e i mezzi che i governi approntano per farvi o non farvi fronte. la crisi finanziaria del 2007/2008 è stata il culmine di un trentennio di politiche economiche a sostegno delle classi più ricche. chi ancora si professa di sinistra dovrebbe seguire la stessa ricetta prescritta agli economisti, dalle cassandre di tutto il mondo: ripartire dai fondamentali.

7.12.10

cartoline dagli orti

si cammina sul filo della follia
l'unica consolazione è che ne siamo
i tessitori

6.12.10

la detroit d'irpinia

da bambino credevo che torrette fosse piena di concessionarie d'auto
perché oltre il bancone del venditore, le costruissero pure le berline
poi venne la fma e capii che le carrozzerie moderne erano un qualcosa di diverso
capii che non avevamo una vocazione industriale
quanto una forte invocazione industriale

1.12.10

ragioni contrapposte

c'è una forma di pazzia che consiste nella perdita di tutto, fourché della ragione
ennio flaiano, diario degli errori

20.11.10

il sistema incatena piano

rinchiuso in una cattedrale di plastica multinazionale
puoi schermare la vita fuori che scorre irregolare
ma prima o poi t'accorgerai di aver schermato la realtà

13.11.10

oltre



4.11.10

now how?

lavorare per il paese senza il paese
vale meno di
lavorare per se stessi con idee altrui

2.11.10

il mare di cairano

la nostra risposta al globale
non può risolversi
nel ritirarsi sulle montagne
che da tempo abbiamo disertato
ma nel tornarvi stupendosi
di come pure vi spiri
la brezza del mare

29.10.10

tutto a post

sono l’inquilino in abito grigio che spalanca premuroso la porta dell’ascensore agli anziani vicini che chiedono se ancora studio e si meravigliano del lavoro, perché tanto giovane mentre nello specchio sfavilla un ciuffo di capelli bianchi. sono il passante dall’andatura stracca che solleva polvere e foglie secche lungo il percorso che conduce alla fermata metro più periferica del mondo, tra capannoni di meccanici sfaccendati e merli che si posano placidi sulle carcasse delle automobili di fronte. sono l’impiegato tipo che attraversa sicuro il corridoio asettico dell’ufficio verso la stanza del capo a raccogliere i complimenti per un anno nel complesso andato male ma nel quale vanno premiati i meritevoli. sono ostaggio di una libertà incondizionata nell’evo dell’irresponsabilità assoluta in cui finisci per pensare che la morale sia salva se quando stai spezzando la vita di chi ti sta accanto, hai la grazia di compatirlo.

28.10.10

lo sfascio delle finanze

lo spirito di un popolo, il suo livello culturale, la sua struttura sociale, i possibili fatti della sua politica, tutto questo e altro ancora è scritto nella sua storia fiscale.

joseph alois schumpeter

23.10.10

il silenzio che contiene?

mai ero stato tante volte accostato alla poesia
come da quando non scrivo più

7.10.10

babel tiburtina

spargo i miei sogni dal ponte della stazione
oltre la grata del non toccare pericolo di morte
di fianco gente indaffarata che scruta il domani
cadono giù sul rapido taranto ancona
giungeranno in ritardo sul cambio desideri
l’altoparlante si scuserà per il disagio arrecato
alla gente indaffarata sorpresa sputando sentenze

1.10.10

vita promesse (non) mantenute

tanta fatica
per tutto

22.9.10

sfoglie di cipolla

l’amministratore delegato di unicredit, alessandro profumo, è stato sfiduciato ieri sera dal consiglio d’amministrazione della banca, riunitosi in seduta straordinaria. vana l’ultima resistenza del banchiere che, secondo le ricostruzioni dei quotidiani, pare abbia dichiarato, sono scomodo perché non faccio parte del sistema. l’unico voto contrario è della consigliera lucrezia reichlin, economista della london business school e figlia di alfredo reichlin, partigiano e dirigente del pci. alfredo reichlin ha poi aderito al partito democratico e nel duemilaotto diviene il presidente della commissione per la stesura del manifesto dei valori del nuovo partito. la commissione era composta da cento membri, la diffusione del documento non pare aver superato di molto tale soglia critica. in passato, alessandro profumo è stato più volte accostato ad ambienti politici di centro - sinistra. ha votato alle primarie del 2005 e del 2007. nella seconda occasione, la moglie, sabina ratti, si è candidata, al fianco di rosy bindi, all’assemblea nazionale del partito: i delegati eletti furono 2.858. sabina ratti fu tra i cento membri della commissione per la stesura del manifesto dei valori, presieduta da alfredo reichlin. oggi, il giorno dopo la sua destituzione, goffredo de marchis su repubblica suggerisce che alessandro profumo ha il profilo adatto per recitare la parte di “papa straniero” del partito democratico, invocato nei giorni scorsi dal documento dell’ex leader walter veltroni (e firmato da 75 deputati e senatori della minoranza del partito di “areadem”). il documento è stato redatto in una fase di forte fibrillazioni interne ed è seguito al documento dei “giovani turchi” (leggi, quarantenni dalemiani che rigettano il pd veltroniano), a dichiarazioni trancianti sulla linea ufficiale del partito dei “piombini” (leggi, renzi e civati) e al lancio di un’imbarazzante campagna pubblicitaria in cui il segretario del partito, bersani, spazientito, invita tutti a rimboccarsi le maniche. al riguardo, sempre goffredo de marchis ha scritto di rischio balcanizzazione per il partito. secondo wikipedia, con balcanizzazione s’intende una situazione interna instabile e condizionata da continue disgregazioni e problemi che causano la rottura dello stato in più regioni o statuti autonomi. nei secoli scorsi, l’indebolimento delle strutture statali allettava un gran numero di potenziali invasori. la globalizzazione ha portato via con sé questo rischio ma ha accresciuto quello dell’invasione dei capitali stranieri. il «pomo della discordia» che ha fatto esplodere i conflitti interni in unicredit, è l'ascesa nel capitale della banca del fondo sovrano e della banca centrale libica, divenuti in breve tempo i primi azionisti della banca con il 7,58% complessivo. operazione che ha contrariato gli altri azionisti di peso, in particolare le fondazioni bancarie, cariverona, caritorino, carimonte, sulle quali, in particolare sulla prima, è forte l’influenza della lega nord. circa tre settimane fa, la guida della rivoluzione libica muammar gheddafi, giunto in italia in visita ufficiale, è stato accolto con i massimi onori dal presidente del consiglio.

17.9.10

mai fidarsi

9.9.10

l'uovo a una dimensione

è svaporato presto il gusto di raccontare, giorno dopo giorno, il poco che accade. il tutto è dovuto, forse, ad un’emotività bizzosa, spaurita nel bel mezzo del freddo artico del web. su cui si trascorre tempo sottratto al dissodamento sistematico dei cuori. d’altra parte senza si è tagliati fuori dal flusso d’informazioni, dalla pioggia di immagini sui fumogeni che colpiscono i leader sindacali; senza, esci fuori e trovi il deserto urbano, inframezzato da oasi il cui accesso è riservato agli uomini col fiore in bocca.

7.9.10

squilibrato

dietro le parole dette c’è un grosso rumore
che torna utile se vuoi subito smentirle
rispondere sinceramente a domande profonde
cosa ci faccio qui?
(cosa farei altrove?)
la situazione politica è squilibrata
una parte del paese è immobile, dimentica
l’altra straparla, straripa
simbolo ne è il corpo del leader più influente
che non si quieterà prima di capitolare

3.9.10

avellino - rocchetta sant'antonio

gerardo iannaccone era un ferroviere
viveva a castelvetere giù sul calore
buona educazione di spirito cristiano
ed un locomotore sotto mano
di buona famiglia giovane e sposato
negli occhi si leggeva: molto complessato
faceva quel mestiere forse per l'amore
di viaggiare sul locomotore
seppure complessato il cuore gli piangeva
quando la sua gente andarsene vedeva
perché la gente scappa ancora non capiva
dall'alto della sua locomotiva
la gente che abbandona spesso il suo paesello
lasciando la sua falce in cambio di un martello
ricorda nei suoi occhi nel suo cuore errante
il misero guadagno di un bracciante
una tarda sera parte da montefalcione
doveva andare a rocchetta e dopo ritornare
pensa di non partire oppure senza fretta
di lasciare il treno a montemiletto
svela il suo grande piano all'altro macchinista
buono come lui ma meno utopista
parla delle città di genti emigrate
a varese oppure a vimercate
e l'altro macchinista capì il suo compagno
felice e soddisfatto del proprio guadagno
e con le parole cercava di calmarlo
fu una mano ad addormentarlo

versione di agapito malteni il ferroviere, rino gaetano

2.9.10

bureau veritas

il manager flessibile confida
nella tua autonomia
nel tuo desiderio di aprire una strada
ma se ti allontanerai non verrà a riprenderti
se ti perderai, l’avrai perduto
ti ha dotato di tutti gli strumenti
della chiave
del sapere contemporaneo
tranne il suo
impenetrabile
come il suo cuore
che riposa nell’armadietto
assieme alle chiavi dell’auto
e una vecchia bottiglia di bourbon

1.9.10

teledurazzo

antonio monda: il romanzo è stato dichiarato ripetutamente morto.
jonathan franzen: sarei felice di vedere gli scrittori parlare del mondo in cui viviamo, invece di rifugiarsi nell'adolescenza o in questioni marginali. penso a quanto fosse eccitante in tal senso saul bellow.
intervista a jonathan franzen, la repubblica di oggi


il mondo di oggi è tempo recuperato per l’assurdo cui prima non si pensava perché impegnati a dover campare. però non ovunque è così, un antropologo ravviserebbe in un’argomentazione del genere dell’eurocentrismo. a durazzo, pover’uomini si sbracciano per vendere un mezzo chilo di olive ma sorridono di più del barista tornato scuro dalle vacanze passate a malindi. un consiglio surreale sarebbe scambiarsi vite spesso, ma è lo stesso giochino di certe programmazioni discutibili di mtv. il segreto dunque, ad averne uno e volerlo dispensare in giro, è di spiazzare il benessere, messaggio che i più, in particolare i giovani del belpaese, non accolgono perché ritengono vivere in un terribile periodo di crisi, in cui si chiudono gli spiragli di futuro. sensazione approfondita dall’evidenza, non imputabile come anti-berlusconismo, di vivere nell’unico paese al mondo in cui l’uomo di gran lunga più ricco concentra su di sé il potere politico e mediatico, in un’epoca che è impasto di consumismo e immagine. un conflitto di interessi con la modernità che nessuno vuole affrontare. al massimo, si va torna a votare.

31.8.10

l'importanza del lego

la strada è ancora poco trafficata, dunque silenziosa, si potrebbe restare a letto se non fosse per il lavorio dannato delle zanzare, voraci di sangue dolce, tesi però smentita da un servizio del telegiornale, a sentire la sarta dalla parrucca color argento. si potrebbe restare a letto perché tanto in ufficio non c’è nulla da fare, se non contare le auto in transito sulla colombo, i pezzi dell’impalcatura che riveste il palazzo, le sirene delle ambulanze. certo si potrebbero sempre gonfiare le storie delle vacanze, raccontare delle donne di due metri e mezzo, dai seni miracolosi, scoperte in un paesino sperduto del congo, delle bellezze dei classici, cristallini, mari del sud, solcati da un cataramano noleggiato a civitavecchia, costato un altro tipo di bellezza ma lasciamo stare. ma tutto sommato si evita perché siamo troppo lontani l’uno dall’altro, cento stanze (di cui la metà vuote) e un corridoio di due chilometri. eppure potrebbe non dipendere dalla distanza quanto dalla noia, fissiamo rapiti lo schermo del portatile da cui attendiamo sgorghi sapienza. la mia proposta di utilizzare una delle cinquanta stanza vuote per il lego è stata subito rigettata dal personale.

30.8.10

deflussi

non esiste evento estivo più fotografato, dagli artisti in erba dell’immagine, che girovagano forsennatamente per l’emiciclo per cogliere l’attimo e intanto si premurano di spiegare ai malcapitati che i loro aggeggi ottici sono composti di pezzi semplici, semplici da aggiustare. intorno cresce e s’annusa la nuova classe creativa locale, tutte le città con ambizioni di esserlo ne hanno una. d’altra parte il lavoro gratificante o è creativo o non è, forse perché scomparsa è l’idea che gratificante possa essere il tempo liberato dal lavoro, fuori in città, fuori dalla città. la musica elettronica a volte è brusio meccanico di sottofondo, altre volte esplode in ritmi sincopati, addolciti dalla linea armonica di una chitarra. le luci colorate accecano, non è peccato offrire le spalle ai d.j., non ballare. sulle balle di fieno coppie stravaccate sparlano tirando una sigaretta dopo l’altra senza poi accendere la miccia sotto le gambe. i più assorti, o probabilmente chi serba una qualche malinconia, si affacciano sulla terrazza e ne vedono una seconda, non calpestabile, frutto dell’architettura anarchica del teatro, che copre in parte i ruderi del castello longobardo di fronte. dal cui cantiere prorompe una scala di metallo che annichilisce e rinvia a data da destinarsi il problema di come utilizzare lo spazio, la piazza che ne esce. eppure la migliore installazione del festival sulla cultura digitale resta la gru biancorossa del castello. bastavano un paio di luci ad intermittenza, qualche movimento pure simulato da un gioco di luci, ed ecco perfettamente espresso il concetto di interazione, non con i corpi e i suoni delle persone, che si dimenano, che urlano, tridimensionali ma inautentici perché mai come ora consapevoli del loro impatto visivo, quanto l'interazione con questa terra: ricostruita daccapo ma con errori, digitali, o zero o uno. già domani quella stessa gru si metterà all’opera: pizzicherà uno qualsiasi dei partecipanti e lo catapulterà oltre la linea di confine delle colline. dopo flussi, deflussi.

26.8.10

diecimila giorni

e furono diecimila giorni
di grazia e di tremori
di un’ansia sotterranea che genera sudori
per un bambino che brucia sterpi
nel sentiero stretto che conduce ad una fonte
in una frazione di mondo
barbara quanto basta da non potersi mimetizzare
erano giochi solitari o ammucchiate di pallone
mentre telekabul crollava e giochi senza frontiere
non superava i parametri di maastricht
l’inno delle medie non suonava bene
quanto gli amici della cassettina
nel progetto rivoluzionario di una radio di quartiere
poi venne il liceo e i rigidi protocolli della città
dei dottori, degli avvocati, dei segretari di partiti mai nati
delle giovani donne truccate
e di una via di scampo dall’intruppamento
salvezza e tormento
verità o infingimento
non ci fu il tempo giusto per appurarlo
perduto nell’innamoramento
e riemerso nella capitale smisurata
a scansare, di nuovo, altri modi alieni
esasperate convinzioni dell’ultima ora
ragioni che non ammettevano dissensi
fino ad oggi
alla società spappolata
indecifrabile
perché i pesci non si muovono in branchi
preferiscono mischiarsi in un prisma di colori
o nuotare solitari
verso l’abisso del mare

4.8.10

petrolnocella

s'inaugurano nuovi parchi urbani ma è complesso demolire le case diroccate circostanti. l’assessore all’urbanistica è stato da poco rimpiazzato, l’ordine degli architetti è in fermento, ma nessuno crede veramente sia quella la delega pensante per il futuro, piuttosto quella pesante. nella gente che incontri, mai si discute di futuro, solo di quando eravamo giovani e belli, si giocava al campetto delle palazzine e colpire i legni era un dolore al petto. ma forse questo, e il resto pure, già l’ho scritto. il corso pedonale è talmente lungo che si strascicano i passi che è un piacere e i vestiti-poveramente progressivamente scompaiono alla vista. si continua a parlare a non finire, eppure qualcosa si è perso perché ora non parliamo di noi ma al massimo di qualcosa che oscuramente incombe. e non si tratta della scomparsa dei de mita. sulla variante, un sacchetto dell’immondizia viene abbandonato da un cane. la linea della funicolare, illuminata, nella notte rende un favore a chi intende misurare con le dita l’altezza del monte. il cartellone del ferragosto è una lenzuolata, soddisfa tutti i gusti ma non ne mobilita di nuovi. è lunga, troppo lunga la città, da una rotatoria all’altra chilometri, di una sola fila di case. troppa è la benzina che s’impegna, bisognerebbe ricavarla dalle nocelle. chissà che il metodo non aiuti a riformare la chimica dell’aria, tanto buona a respirarsi, ma che poi ripetutamente t’incita, scappa, scappa dalla cappa e non voltarti indietro.

3.8.10

ucronìa irpina

il monumento simbolo dell’irpinia, la montagna dei quattro, è un complesso scultoreo che si trova a volturara in provincia di avellino, formato da enormi blocchi granitici. negli anni novanta, a conclusione della magnifica opera di ricostruzione dal terribile terremoto dell’ottanta, la provincia di avellino commissionò il progetto di riconversione di una vecchia cava abbandonata ad un artista locale di fama internazionale, pippo pallatucci. sulla grande parete di roccia, visibile da gran parte dei paesi della valle del sabato, pallatucci scolpì i volti degli artefici della ricostruzione: salverino de vito, ciriaco de mita, nicola mancino e, unico non irpino, giuseppe zamberletti. la scultura, i cui lavori iniziarono nel 1993, proseguì con l’impiego di oltre mille operai, sino alla morte dello scultore, avvenuta nel 1999 e fu inaugurata nel 2000, ventennale del terremoto, alla presenza dei quattro uomini politici.l’opera è alta 25 metri ed è importante meta turistica, anche per le bellezze naturalistiche della valle del dragone. gli irpini ne vanno orgogliosi.