Per non morire da...
Credevo che a saperne di più il mio problema si sarebbe semplificato, e forse era bene completare la mia istruzione. Ma da quando ho lavorato per Robey, sono giunto alla conclusione che non potevo utilizzare nemmeno il dieci per cento di ciò che sapevo già. Ti faccio un esempio. Ho letto della tavola rotonda di re Artù, quand’ero ragazzo, ma a che mi servirà mai? Il sacrificio e gli sforzi mi hanno toccato il cuore, che dovrei fare dunque? Oppure prendi i Vangeli. Come credi di poterli mettere in pratica? Macché, non sono utilizzabili! E allora corri ad accatastarci in cima altri consigli ed altri nozioni. Qualsiasi cosa si limiti ad aggiungere nozioni che non puoi utilizzare è solo un pericolo. Comunque, ce n’è fin troppa di questa roba, ecco che cosa ho capito, troppa storia e troppa cultura da seguire, troppi particolari, troppe notizie, troppi esempi, troppe influenze, troppa gente che ti dice di essere come loro, e tutta questa enormità, abbondanza, turbolenza, questo torrente impetuoso come le cascate del Niagara. E chi dovrebbe interpretarlo? Io? Non ho abbastanza testa per padroneggiare tutto. Mi sento portar via, guarda! un uomo potrebbe passare così quaranta, cinquanta, sessant’anni entro le mura del proprio essere. E ogni grande esperienza avrebbe luogo solo entro queste pareti. E ogni conquista resterebbe entro queste pareti. E anche ogni fascino. E perfino l’odio, la mostruosità, l’invidia, il delitto, sarebbero là dentro. Questo non sarebbe che un sogno tremendo, spaventoso, dell’esistenza. È meglio scavar fossi e prendere gli altri a badilate piuttosto che morire fra quelle quattro mura.
da Le avventure di Augie March – Saul Bellow
La fototessera digitale, altrimenti detta badge, che, consentendomi di superare il posto di guardia degli uscieri in armi, mi permette di entrare, immune, nel campus universitario, ha una seconda funzione, sconosciuta ai più, benché utilissima, o quantomeno lo è stata per la “mia educazione”. Durante la sessione di esami, quando altrove la tensione scalfisce la tranquillità degli studenti, per chi non se la sente di affrontare l’incertezza del confronto col cattedratico di turno, la nostra benemerita istituzione accademica offre pacchetti vantaggiosi, 3 (esami)x 2, e via dicendo, a seconda delle ambizioni di media e di carriera, a seconda della generosità di ciascuno. È proprio il codice a dieci cifre del badge, che opportunamente digitato sul touch-screen del sottoscala che offre l’accesso al famigerato caveaux, dove un uomo della segreteria, impeccabilmente vestito, conclude la transazione, consultando tariffari e aggiornando registri. Il giorno dopo, l’esame vero e proprio passa via liscio, il professore firma il libretto ligio, tu esci fuori e sorridi al vento. Peccato per chi biasima solo perché ne resta fuori!
Un’aula smisurata così non l’avevo mai vista. Forse perché non si trattava di un’aula. Eravamo ad uno dei padiglioni della fiera di roma: migliaia di banchi, matite, teste. Tre giorni dopo l’undici settembre, affrontavamo, smilzi, il test d’ingresso per l’università. Il numero chiuso impediva all’intera massa frignante di entrarvi a mani basse e a mani basse prendere. Da parte mia, tormento (o tormentone dei primi mesi): tentativo abborracciato di scansare nullafacenza certa, risucchiato com’ero dai doveri di un futuro da qualcosa. Ma poi, e prevedibilmente, il “tanto per provare” bastò. Certo per un pelo. Perché a metà prova, pensai m’avanzasse tempo per guardarmi intorno e godermi quel dannato lavorio di sospetti brocchi, fieri di arrivare. E nel rimanere indietro, ritrovavo il gusto di metter in sospensione un’adesione mai accreditata. Dei minuti finali ce ne tolsero tre, ché la voce già malferma del rettore ci chiamò al silenzio per le vittime del disastro delle torri. Dacché io riflettei che il continuare a scrivere non m’impediva di rispettare quella richiesta. Pochi secondi e un paio di attendenti si avventarono contro la mia persona e per poco non ne fui cacciato, da subito. Pochi giorni e i caccia americani cominciarono i bombardamenti sull’afghanistan. Pochi giorni e si chiuse una, breve, stagione di speranza.
Innanzi al portone sbarrato della sala colonne, all’interno della quale, solerte, la commissione d’esame decide la mia sorte, emetto sudore copiosamente, mi mangio le labbra nervosamente. Sono stato il primo della giornata ad essere chiamato dentro. Non volevano neppure che leggessi le mie sporche slides. Il mio relatore m’ha subito intimato di arrivare alle conclusioni del lavoro. Poi, poiché m’attardavo a recuperare il discorso, sapientemente preparato, mi ha assestato una domanda sulla contabilità nazionale, di cui tardo a comprendere la potenziale portata. Ma nonostante i miei voli pindarici, approvavano entusiasti, si davano di gomito, fossi capitato in un manicomio? Fuori, riprendo alla memoria quello che è successo, mentre intorno, i pochi sopraggiunti, mi incitano, mi rassicurano, mi detergono la fronte. Un uomo, tarchiato e col pizzetto, tirato in lucido e dal pesante accento siciliano, mi si para davanti e mi chiede di dipingergli la scena. Gli sbiascico due parole, poi, evidentemente, visto che non ne ho più, mi presenta la referenza, è il padre di w.g., mica cazzi. Avrei dovuto essere più gentile. Ma il tempo è poco. Si aprono i battenti. Gli uomini in toga sono lì ad attendermi. Gli uomini in toga sono tutti in piedi. ‘Fanculo a tutti!
Senza personaggi così, la teoria secondo la quale, tutto sommato, la mia università, a livello faunistico, non si differenzi molto dalle altre, perderebbe il suo peso specifico. C’è da obiettare che gran parte dei “personaggi così”, a tempo debito, si sono ritirati, si sono insabbiati, al meglio, si sono lasciati sfilare, oberati da esami, a loro detta, insostenibili. I primi due che conobbi, per esempio, in una mattina di ottobre, vecchia un secolo oramai: il palermitano indolente che soffriva di saudade e, forse, abbandonò l’idea di studiare già prima di salire. Con cui elaborammo sapidi scherzi verbali, durante le lezioni infinite del primo anno, in aule gremite e, dunque, con obiettivi mobili in abbondanza. E a.p., casco di capelli, primi anni novanta, di anzio, tifosissimo della roma, e di una puntualità che lasciava intendere un desiderio di non deludere le attese. O ancora, l’ascolano filosofo, con lunga coda di cavallo, con cui conversavamo, tra il colto ed il ridicolo, nel parchetto, di come tutto lì intorno ci stesse riducendo come in una batteria per polli. Di lì a poco sparì. In una batteria per polli la sorte peggiore spetta al pollo soppresso o al pollo riprogrammato?
Sino al giorno, in cui, smarritomi per una storia d’amore andata a male, capii l’importanza di calibrare bene i miei passi e sostituii una mia vecchia teoria - per la quale era inutile conservare, nella rubrica telefonica, i numeri di coloro che ritenevo avrei perso facilmente lungo la strada – con una nuova, ancora non accantonata, in cui mi sarei tappato il naso e sarei stato più attento alle pubbliche relazioni. Tanto da finire, da osservatore, a gozzovigliare ad una tipica festicciola (universitaria) del giovedì, dall’altra parte del tevere, assediato dalla gioventù che di giorno, accuratamente, evitavo, e prendere il mio look come un’attenuante. Oppure al cinema d’essai, di domenica, accanto alla chiesa - da cui, dopo la funzione del pomeriggio, defluiscono sciami di giovani benpensanti e illibati – a godersi pellicole armene, ultime a cannes, di bianco immacolato e silenzio rimbombante. Poi, chiudere la serata con un passito, col giornale del giorno dopo, che ti annerisce i polpastrelli e appaga il tuo bisogno di informazione, forse già prima di leggerlo. Il giorno successivo, lo stesso giornale, nell’aula otto, avrebbe scatenato il solito dibattito sul “giornalismo schierato”, sull’italietta della malora.
I commenti successivi:
◙ Sei stato un po’ arrogante col professore, se mi permetti, l.
◙ Io non posso chiedere niente a te, tu niente a me, l.
◙ Non vedi l’ora che finisce tutto, eh? Da vero anti-social!, f.
◙ Ubriacati, sbracati, impazzisci, r.
◙ Mi devo un po’ riprendere dalla giornata, a.
◙ Ora non ci vedremo mai più, vero? M.
◙ Lo sai che sei un grande? Prendi per culo e parli in faccia, f.
◙ Fai finta di essere affettuoso, m.
◙ Ora ho capito perché tuo fratello ha sempre preso le mazzate, p.
◙ Grande!, g.
◙ Se verrai a trovarmi, tortellini, f.
◙ Ho sbagliato numero. Comunque, auguri!, a.
◙ Ovviamente, con il massimo?, g.
◙ Non sono venuto ché si è rotta la centralina dell’auto, q.
◙ Vado via ché devo mandare una mail al professore, s.
◙ Stai tornando (magro) come una volta, g.
◙ Ti conviene rimanere qui; fai una vita diversa, no?, s.
◙ Ora raccogli tutte le occasioni: lavorolavoro!, m.
◙ Ora, sei passato di status, l.
◙ Bell’ambasciatore!, f.
Niente è stato uguale all’ultimo anno universitario. Tra mensa, aule studio, biblioteca, per la prima volta mi sono sentito parte del tran tran quotidiano, quasi fossi uno studente normalizzato. Proprio quando gli esami erano finiti, o quantomeno si cercava ogni genere di giustificazione per cercare il modo di non accelerare, senza esser mazzolati finanziariamente dalla scure che si abbatte sui fuoricorso. Ci siamo riusciti. Eppure, è finita. Ci teneva stretti il timore di perdere la parte più preziosa della nostra giovinezza. Sbagliavamo. Difficile abolire il tempo per i rimpianti ma, almeno, non bisognerebbe programmarlo con largo anticipo. Ora, col culo scoperto, cercheremo di non deluderci, di non soffrire troppo per i successi annunciati di chi, finora nostro simile, ne anellerà di sostanziosi, e a catena, ma svendendosi anima e corpo. Saremo ancora in cerca dei maestri di vita, che la nostra università, pure a pagarla oro, o forse proprio per questo, non è stata in grado di offrirci. Cercheremo di scoprire chi siamo, e se l’imprinting universitario si rivelerà una falla o una arma. In ogni caso, dovremmo ringraziare per sempre, le maschere che hanno allietato le nostre lunghe giornate: l’usciere rauco e l’usciere capellone, il vigilantes capo e il vigilantes scemo, il professore in bermuda e il professore balbuziente, la bibliotecaria assillante e la bibliotecaria ammiccante, infine, posterina, per l’ispirazione.
Ore nove e un quarto: preciso come uno svizzero. A sei giorni dalla discussione, devo presentare il lavoro, rilegato, al professore sgusciante. Prima, vado a prelevare il suo assistente, che, fedelmente, o finto tale, mi ha seguito in questi mesi, e che arriva, in ritardo, già trafelato. È bell’in tiro. Non vorrei che, come l’altra volta, fosse, in presenza del professore, più a disagio di me, fino a biascicare le frasi, a dimenticare l’essenziale. Mi offre subito un caffè, mentre sputa fango sulle amministrazioni regionali. Poi, prendiamo di corsa un taxi a via delle province. Dobbiamo raggiungere il Professore, che ha un consiglio di amministrazione al quartiere Parioli. L’assistente comincia ad armeggiare col contenuto della sua borsa, in cerca di un foglietto su cui ha appuntato la scaletta della mia tesi e altre informazioni preliminari da presentare al cospetto del Professore. Comincia a sudare. Di buona volontà, gli dico che potremmo riscrivere il tutto e, tremolante per gli scossoni dell’andatura, stilo l’elenco. Nel frattempo, il taxista, intruppatosi nel traffico, chiede la strada ad un rom, di turno al semaforo. Ne ottiene una scrollata di spalle dispiaciuta. Fortunosamente arrivati a destinazione, si fa ironia sui prezzi degli attici in zona. Dopodiché con manovra repentina, l’assistente mi lascia giù ad aspettare, perché non è il caso, perché non ce n’è bisogno. Finisco per passeggiare nervosamente, superando vecchiette smancerose con cani e giovani uomini impettiti. L’assistente scende dopo cinquanta minuti, colla battuta pronta: “trovato qualche appartamentino interessante?”. Scende pure con una fame dannata, si sbafa tre tramezzini in pochi secondi, poi si conversa di letteratura, di egitto e di Lisbona, di kharma personale e di vino locale. Scopro che ha una manciata di cognati. Entra nel tram e paga il biglietto. Io glielo timbro ma proseguo nella corsa da portoghese. Se salisse il controllore, mi pagherebbe la multa? Dalle parti di villa torlonia, mi lascia ripetere il discorsetto, e, conveniamo, che l’affanno si compensi coll’emozione del giorno a venire. Lo convinco, ma credo basti poco. Di nuovo, sotto casa sua, mi strattona con presa da basket player u.s.a., e mi incita, “spaccagli il culo, a questi, vecchi, rincoglioniti ed eterni!”. C’avrei provato, non m’hanno dato nemmeno il tempo. Si accomodi, grazie!
da Le avventure di Augie March – Saul Bellow
La fototessera digitale, altrimenti detta badge, che, consentendomi di superare il posto di guardia degli uscieri in armi, mi permette di entrare, immune, nel campus universitario, ha una seconda funzione, sconosciuta ai più, benché utilissima, o quantomeno lo è stata per la “mia educazione”. Durante la sessione di esami, quando altrove la tensione scalfisce la tranquillità degli studenti, per chi non se la sente di affrontare l’incertezza del confronto col cattedratico di turno, la nostra benemerita istituzione accademica offre pacchetti vantaggiosi, 3 (esami)x 2, e via dicendo, a seconda delle ambizioni di media e di carriera, a seconda della generosità di ciascuno. È proprio il codice a dieci cifre del badge, che opportunamente digitato sul touch-screen del sottoscala che offre l’accesso al famigerato caveaux, dove un uomo della segreteria, impeccabilmente vestito, conclude la transazione, consultando tariffari e aggiornando registri. Il giorno dopo, l’esame vero e proprio passa via liscio, il professore firma il libretto ligio, tu esci fuori e sorridi al vento. Peccato per chi biasima solo perché ne resta fuori!
Un’aula smisurata così non l’avevo mai vista. Forse perché non si trattava di un’aula. Eravamo ad uno dei padiglioni della fiera di roma: migliaia di banchi, matite, teste. Tre giorni dopo l’undici settembre, affrontavamo, smilzi, il test d’ingresso per l’università. Il numero chiuso impediva all’intera massa frignante di entrarvi a mani basse e a mani basse prendere. Da parte mia, tormento (o tormentone dei primi mesi): tentativo abborracciato di scansare nullafacenza certa, risucchiato com’ero dai doveri di un futuro da qualcosa. Ma poi, e prevedibilmente, il “tanto per provare” bastò. Certo per un pelo. Perché a metà prova, pensai m’avanzasse tempo per guardarmi intorno e godermi quel dannato lavorio di sospetti brocchi, fieri di arrivare. E nel rimanere indietro, ritrovavo il gusto di metter in sospensione un’adesione mai accreditata. Dei minuti finali ce ne tolsero tre, ché la voce già malferma del rettore ci chiamò al silenzio per le vittime del disastro delle torri. Dacché io riflettei che il continuare a scrivere non m’impediva di rispettare quella richiesta. Pochi secondi e un paio di attendenti si avventarono contro la mia persona e per poco non ne fui cacciato, da subito. Pochi giorni e i caccia americani cominciarono i bombardamenti sull’afghanistan. Pochi giorni e si chiuse una, breve, stagione di speranza.
Innanzi al portone sbarrato della sala colonne, all’interno della quale, solerte, la commissione d’esame decide la mia sorte, emetto sudore copiosamente, mi mangio le labbra nervosamente. Sono stato il primo della giornata ad essere chiamato dentro. Non volevano neppure che leggessi le mie sporche slides. Il mio relatore m’ha subito intimato di arrivare alle conclusioni del lavoro. Poi, poiché m’attardavo a recuperare il discorso, sapientemente preparato, mi ha assestato una domanda sulla contabilità nazionale, di cui tardo a comprendere la potenziale portata. Ma nonostante i miei voli pindarici, approvavano entusiasti, si davano di gomito, fossi capitato in un manicomio? Fuori, riprendo alla memoria quello che è successo, mentre intorno, i pochi sopraggiunti, mi incitano, mi rassicurano, mi detergono la fronte. Un uomo, tarchiato e col pizzetto, tirato in lucido e dal pesante accento siciliano, mi si para davanti e mi chiede di dipingergli la scena. Gli sbiascico due parole, poi, evidentemente, visto che non ne ho più, mi presenta la referenza, è il padre di w.g., mica cazzi. Avrei dovuto essere più gentile. Ma il tempo è poco. Si aprono i battenti. Gli uomini in toga sono lì ad attendermi. Gli uomini in toga sono tutti in piedi. ‘Fanculo a tutti!
Senza personaggi così, la teoria secondo la quale, tutto sommato, la mia università, a livello faunistico, non si differenzi molto dalle altre, perderebbe il suo peso specifico. C’è da obiettare che gran parte dei “personaggi così”, a tempo debito, si sono ritirati, si sono insabbiati, al meglio, si sono lasciati sfilare, oberati da esami, a loro detta, insostenibili. I primi due che conobbi, per esempio, in una mattina di ottobre, vecchia un secolo oramai: il palermitano indolente che soffriva di saudade e, forse, abbandonò l’idea di studiare già prima di salire. Con cui elaborammo sapidi scherzi verbali, durante le lezioni infinite del primo anno, in aule gremite e, dunque, con obiettivi mobili in abbondanza. E a.p., casco di capelli, primi anni novanta, di anzio, tifosissimo della roma, e di una puntualità che lasciava intendere un desiderio di non deludere le attese. O ancora, l’ascolano filosofo, con lunga coda di cavallo, con cui conversavamo, tra il colto ed il ridicolo, nel parchetto, di come tutto lì intorno ci stesse riducendo come in una batteria per polli. Di lì a poco sparì. In una batteria per polli la sorte peggiore spetta al pollo soppresso o al pollo riprogrammato?
Sino al giorno, in cui, smarritomi per una storia d’amore andata a male, capii l’importanza di calibrare bene i miei passi e sostituii una mia vecchia teoria - per la quale era inutile conservare, nella rubrica telefonica, i numeri di coloro che ritenevo avrei perso facilmente lungo la strada – con una nuova, ancora non accantonata, in cui mi sarei tappato il naso e sarei stato più attento alle pubbliche relazioni. Tanto da finire, da osservatore, a gozzovigliare ad una tipica festicciola (universitaria) del giovedì, dall’altra parte del tevere, assediato dalla gioventù che di giorno, accuratamente, evitavo, e prendere il mio look come un’attenuante. Oppure al cinema d’essai, di domenica, accanto alla chiesa - da cui, dopo la funzione del pomeriggio, defluiscono sciami di giovani benpensanti e illibati – a godersi pellicole armene, ultime a cannes, di bianco immacolato e silenzio rimbombante. Poi, chiudere la serata con un passito, col giornale del giorno dopo, che ti annerisce i polpastrelli e appaga il tuo bisogno di informazione, forse già prima di leggerlo. Il giorno successivo, lo stesso giornale, nell’aula otto, avrebbe scatenato il solito dibattito sul “giornalismo schierato”, sull’italietta della malora.
I commenti successivi:
◙ Sei stato un po’ arrogante col professore, se mi permetti, l.
◙ Io non posso chiedere niente a te, tu niente a me, l.
◙ Non vedi l’ora che finisce tutto, eh? Da vero anti-social!, f.
◙ Ubriacati, sbracati, impazzisci, r.
◙ Mi devo un po’ riprendere dalla giornata, a.
◙ Ora non ci vedremo mai più, vero? M.
◙ Lo sai che sei un grande? Prendi per culo e parli in faccia, f.
◙ Fai finta di essere affettuoso, m.
◙ Ora ho capito perché tuo fratello ha sempre preso le mazzate, p.
◙ Grande!, g.
◙ Se verrai a trovarmi, tortellini, f.
◙ Ho sbagliato numero. Comunque, auguri!, a.
◙ Ovviamente, con il massimo?, g.
◙ Non sono venuto ché si è rotta la centralina dell’auto, q.
◙ Vado via ché devo mandare una mail al professore, s.
◙ Stai tornando (magro) come una volta, g.
◙ Ti conviene rimanere qui; fai una vita diversa, no?, s.
◙ Ora raccogli tutte le occasioni: lavorolavoro!, m.
◙ Ora, sei passato di status, l.
◙ Bell’ambasciatore!, f.
Niente è stato uguale all’ultimo anno universitario. Tra mensa, aule studio, biblioteca, per la prima volta mi sono sentito parte del tran tran quotidiano, quasi fossi uno studente normalizzato. Proprio quando gli esami erano finiti, o quantomeno si cercava ogni genere di giustificazione per cercare il modo di non accelerare, senza esser mazzolati finanziariamente dalla scure che si abbatte sui fuoricorso. Ci siamo riusciti. Eppure, è finita. Ci teneva stretti il timore di perdere la parte più preziosa della nostra giovinezza. Sbagliavamo. Difficile abolire il tempo per i rimpianti ma, almeno, non bisognerebbe programmarlo con largo anticipo. Ora, col culo scoperto, cercheremo di non deluderci, di non soffrire troppo per i successi annunciati di chi, finora nostro simile, ne anellerà di sostanziosi, e a catena, ma svendendosi anima e corpo. Saremo ancora in cerca dei maestri di vita, che la nostra università, pure a pagarla oro, o forse proprio per questo, non è stata in grado di offrirci. Cercheremo di scoprire chi siamo, e se l’imprinting universitario si rivelerà una falla o una arma. In ogni caso, dovremmo ringraziare per sempre, le maschere che hanno allietato le nostre lunghe giornate: l’usciere rauco e l’usciere capellone, il vigilantes capo e il vigilantes scemo, il professore in bermuda e il professore balbuziente, la bibliotecaria assillante e la bibliotecaria ammiccante, infine, posterina, per l’ispirazione.
Ore nove e un quarto: preciso come uno svizzero. A sei giorni dalla discussione, devo presentare il lavoro, rilegato, al professore sgusciante. Prima, vado a prelevare il suo assistente, che, fedelmente, o finto tale, mi ha seguito in questi mesi, e che arriva, in ritardo, già trafelato. È bell’in tiro. Non vorrei che, come l’altra volta, fosse, in presenza del professore, più a disagio di me, fino a biascicare le frasi, a dimenticare l’essenziale. Mi offre subito un caffè, mentre sputa fango sulle amministrazioni regionali. Poi, prendiamo di corsa un taxi a via delle province. Dobbiamo raggiungere il Professore, che ha un consiglio di amministrazione al quartiere Parioli. L’assistente comincia ad armeggiare col contenuto della sua borsa, in cerca di un foglietto su cui ha appuntato la scaletta della mia tesi e altre informazioni preliminari da presentare al cospetto del Professore. Comincia a sudare. Di buona volontà, gli dico che potremmo riscrivere il tutto e, tremolante per gli scossoni dell’andatura, stilo l’elenco. Nel frattempo, il taxista, intruppatosi nel traffico, chiede la strada ad un rom, di turno al semaforo. Ne ottiene una scrollata di spalle dispiaciuta. Fortunosamente arrivati a destinazione, si fa ironia sui prezzi degli attici in zona. Dopodiché con manovra repentina, l’assistente mi lascia giù ad aspettare, perché non è il caso, perché non ce n’è bisogno. Finisco per passeggiare nervosamente, superando vecchiette smancerose con cani e giovani uomini impettiti. L’assistente scende dopo cinquanta minuti, colla battuta pronta: “trovato qualche appartamentino interessante?”. Scende pure con una fame dannata, si sbafa tre tramezzini in pochi secondi, poi si conversa di letteratura, di egitto e di Lisbona, di kharma personale e di vino locale. Scopro che ha una manciata di cognati. Entra nel tram e paga il biglietto. Io glielo timbro ma proseguo nella corsa da portoghese. Se salisse il controllore, mi pagherebbe la multa? Dalle parti di villa torlonia, mi lascia ripetere il discorsetto, e, conveniamo, che l’affanno si compensi coll’emozione del giorno a venire. Lo convinco, ma credo basti poco. Di nuovo, sotto casa sua, mi strattona con presa da basket player u.s.a., e mi incita, “spaccagli il culo, a questi, vecchi, rincoglioniti ed eterni!”. C’avrei provato, non m’hanno dato nemmeno il tempo. Si accomodi, grazie!
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