omaggio a meneghello
Eravamo una trentina, ora più ora meno, e infine quando fummo alla Fossetta, verso la fine di maggio, trentasei. C'erano altri reparti non lontani, il Castagna a sud e a ovest, i comunisti a est; alla mattina qualche volta li sentivamo sparare; c'erano partigiani di qua e di là, ma intendiamoci, c'era molto più Altipiano che partigiani. Il luogo era vuoto, un deserto. In certi momenti questo si sentiva forte. "Mi pare di essere nella Tebaide" dicevo a Lelio.
Cose da non dire a Antonio, private, irrazionali. Lui rappresentava ciò che è equilibrato, e non volevamo esibirgli i nostri squilibri: cose oscure, che nemmeno lui poteva schiarire.
Questa faccenda della Tebaide c'è per me in ogni altra fase della guerra, è una componente fissa; ma qui sui monti alti si sentiva tanto di più. Era il posto migliore per isolarci dall'Italia, dal mondo. Fin dal principio intendevamo bensì tentare di fare gli attivisti, reagire con la guerra e l'azione; ma anche ritirarci dalla comunità, andare in disparte. C'erano insomma due aspetti contraddittori nel nostro implicito concetto di banda: uno era che volevamo combattere il mondo, agguerrirci in qualche modo contro di esso; l'altro che volevamo sfuggirlo, ritirarci da esso come in preghiera.
Oggi si vede bene che volevamo soprattutto punirci. La parte ascetica, selvaggia, della nostra esperienza significa questo. Ci pareva confusamente che per ciò che era accaduto in Italia qualcuno dovesse almeno soffire; in certi momenti sembrava un esercizio personale di mortificazione, in altri un compito civico. Era come se dovessimo portare noi il peso dell'Italia e dei suoi guai, e del resto anche letteralmente io non ho mai portato e trasportato tanto in vita mia: farine, esplosivi, pignatte, mazzi di bombe incendiarie, munizioni. Era un cumulo grottesco. In cima a tutto c'erano le pentole soprannumerarie, la corda, gli ombrelli ripiegati dei paracadute; sotto il grande strato dei sacchi dei viveri; sotto ancora lo zaino rigonfio, pieno di calze e di palle; e sotto lo zaino, io. Avevo abbandonato ogni tentativo di tenere le membra bilanciate in modo razionale, sfruttando la struttura del nostro scheletro, che convenientemente sfruttata consente di tener su i quintali senza sforzo speciale dei muscoli. Reggevo invece tutto col puro sforzo dei muscoli e sentivo il baricentro scapparmi di qua e di là come un uccellino spaventato. Forse ce l'avrei fatta, perché il peso si assesta da sé, e un equilibrio finisce col nascere; ma Bene che mi camminava dietro, mi domandò per prendermi in giro: "Credi tu che continuerà la prosa ermetica, dopo la guerra?" e io cominciai a declamare contro questo tipo di prosa, e Vassili, che ci camminava di fianco si mise a ridere, essendoci solo sacchetti e pignatte, e questa voce concitata che usciva dal mucchio; e così anche Bene e io cominciammo a ridere, e i miei muscoli crollarono e finii in una scafa col mio carico.
C'era inoltra la sensazione di essere coinvolti in una crisi veramente radicale, non solo politica, ma quasi metafisica. Ci spaventava non tanto il collasso degli istituti, e delle meschine idee su cui era fondato il nostro mondo di prima, quanto il dubbio istintivo sulla natura ultima di ciò che c'è dietro a tutti gli istituti, la struttura della menta stessa dell'uomo, l'idea di una vita razionale, di un consorzio civile. Sentivamo la guerra come la crisi ultima, la prova, che avrebbe gettato una luce cruda non solo sul fenomeno del fascismo, ma sulla mente umana, e dunque su tutto il resto, l'educazione, la natura, la società.
Bisogna pensare che il crollo del fascismo (che ebbe luogo tra il '40 e il'42: dopo di allora era già crollato) era sembrato anche il crollo delle nostre bravure di bravi scolari e studenti, il crollo della nostra mente. Ora si vedeva chiaro quanto è ingannevole fidarsi delle proprie forze, credersi sicuri. Penso onestamente che ogni italiano che abbia un po' di sensibilità debba aver provato qualcosa di simile. Non si poteva dare la colpa al fascismo dei nostri disastri personali: era troppo comodo; e dunque pareva ingenuo credere che rimosso il fascismo tutto andrebbe a posto. Che cos'è l'Italia? che cos'è la coscienza? che cos'è la società? Dalla guerra ci aspettavamo queste e mille altre risposte, che la guerra, disgraziata, non può dare. Tutto pareva che fosse quasi un nodo, e questi nodi venivano al pettine. Che cos'è il coraggio? e la serietà, e la morte stessa? Non è più finita: che cos'è l'amore? che cos'è la donna?
Stupidaggini: non si può chiedere alla guerra che cos'è la donna; almeno quelle due o tre volte che gliel'ho chiesto io, non mi ha risposto niente. Sta il fatto che noi i nodi li vedevamo venire al pettine, e ci pareva di sentire che perfino dietro la politica, la regina delle cose, ci sono forze oscure che lei non governa. Anche il fascismo è forse collegato con queste forze oscure. Il mondo è misterioso, e questo si sente molto di più quando si vive un pezzo in mezzo ai boschi.
da I piccoli maestri, Luigi Meneghello
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