15.9.07

sul lavoro culturale

Eccoci qua, insomma, tutti e due ufficiali in congedo, con la guerra perduta e il paese distrutto. Per chi? Per cosa? Ci avevano allevati dunque per questo, per comandare cinquanta soldati, cinquanta contadini, e portarli a sparare contro altri cinquanta soldati, altri cinquanta contadini? Mi spiegava Marcello che son sempre i contadini – italiani, inglesi, russi, di tutte le parti del mondo – che fanno la guerra, e che son sempre ragazzi di vent’anni, studenti che non hanno ancora finito la scuola, che li portano a farsi ammazzare. Era toccato a nostro padre, nel quindici. Lui almeno era tornato con l’illusione di aver vinto la guerra, ma anche lui, a conti fatti, aveva inquadrato cinquanta contadini, contadini calabresi e veneti, e poi era tornato a casa senz’arte né parte, senza un lavoro, proprio così come i soldati erano tornati senza terra, per ritrovare lo stesso padrone di prima.
Quanti ce n’erano rimasti, allora come ora, di sottotenentini di vent’anni, in Cirenaica, in Russia, in Grecia? Tanti. Erano morti insieme ai loro soldati, ed erano morti senza riuscire nemmeno, prima, a capirsi con i loro soldati, perché i contadini non avevano studiato né la cultura fascista né la letteratura, né la storia, niente insomma. Erano analfabeti. Ragazzi di vent’anni come noi, ma lontani da noi in ogni momento, tranne che nella sorte delle marce, dei turni di vedetta, degli scontri di pattuglie. Solo le bombe dei mortai greci, o le catiusce dei russi, o i carri armati inglesi ci facevano uguali. Perché?
Perché c’era voluta la guerra a farci capire che esistono due Italie? Da una parte l’Italia dei contadini, quelli che lavorano, e poi fanno le guerre; e dall’altra l’Italia del signor generale, del vescovo, del federale. E noi cosa stiamo a farci? Dobbiamo scegliere, o di qua o di là. Noi abbiamo studiato, diceva Marcello, ma quel che abbiamo imparato non servirà a niente, se non ci aiuta a capire le ragioni dei contadini; se non ci aiuta ad evitare di doverceli portare dietro un’altra volta, domani, e morire insieme senza nemmeno esserci guardati in faccia, senza mai esserci capiti.
Per questo, in mezzo a noi che volevamo, come si è già spiegato, una cultura moderna e spregiudicata, Marcello insisteva a dire che niente è moderno e spregiudicato se non lascia davvero dietro di sé i pregiudizi e i residui di maggior peso, se non tiene conto di questa fondamentale esperienza dei giorni nostri, e che la cultura non ha senso se non aiuta a capire gli altri, a soccorrere gli altri, ad evitare il male.

da il Lavoro culturale, Luciano Bianciardi

Trasformatomi in capo ad una settimana in colletto bianco pendolare, già disfatto dalla fame e da una serie di contrapposte sensazioni (dopo)lavorative, giunto alla stazione tiburtina, nell’attesa dell’imbarco air, piombai in libreria uscendone impaziente di immergermi nella lettura de “il lavoro culturale” di bianciardi, autore la cui opera in passato avevo colpevolmente tralasciata. Salito a bordo del mezzo, mi ritrovai nuovamente nel salottino a quattro del primo piano, bill gates immancabile compagno di destra e di fronte due giovani viaggiatori che sulle prime, sommersi come erano dai quotidiani nazionali e dalle cronache locali, mi parvero studenti curiosi, svegli, d’altra parte di ariano. Incapaci di tacersi, continuarono a disquisire probabilmente sulla bontà del disegno della Creazione, ma io, per me, totalmente rapito dalla lettura dello smilzo volume feltrinelli, non distinsi nulla dei loro discorsi finché, forse in pausa stropiccio-occhi, forse illuminato dal passo precedente, sulla fratellanza che ispira, convintomi nell’intimo dell’importanza della comprensione reciproca per il futuro dell’umanità (il bridging capital di Putnam in altre formule organizzato, dopo tutto), mi occupai (linguaggio del corpo mai fu più esplicito) di decifrare le loro ciance. Ne ricavai con sorpresa che l’adesione della scena cui stavo assistendo col ragionamento bianciardiano stava divenendo attimo per attimo più calzante. I due, fratelli, avevano appena partecipato alla prova scritta che gli avrebbe consentito di ingrossare le fila del nostro Esercito volontario. Stavano ripercorrendo con stupefacente dovizia di particolari le risposte che avevano dato al test, le alternative che argutamente avevano considerato sballate. Per cui la triplice alleanza: con la Russia; il triangolo scaleno: quello con due angoli uguali; oslo: la capitale della svezia; l’ultima regina d’italia: margherita di savoia; mentre, per chiudere, supportarono l’insondabile teoria per cui è inutile cominciare ad imparare l’inglese, a vent’anni, partendo dalla traduzione se rimangono ignote le regole grammaticali, meglio darla vinta al Sapere questa battaglia. Ebbi l’ardire di chiedere come era andata, e il più saputo dei due mi rispose che avevano avuto gioco facile e ora restano solo le formalità mediche. Gli porsi i più sinceri dei miei auguri ma non riuscii a procedere nel mio esercizio di contaminazione. A quel punto imbracciai il mio Ipod come una bandiera bianca e mi convinsi che il lavoro culturale spesso è una condanna alla sofferenza. Nel frattempo, all’altezza del vesuviello di Nola, avvistai una navicella spaziale in fase d’atterraggio. Che accertino subito se portano con sé risposte o domande, pensai. Dell’evento i due futuri soldati nemmeno se ne avvidero.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bello il tuo spaccato di vita da pendolare. Ho viaggiato da pendolare anche io molto nella vita e posso capirti. Idem mi sono sempre intrufolato nei discrosi altrui e idem ho taciuto tantissime volte, chiedendomi con somma tristezza di come è difficile sopportare la vendetta della segretezza interiore allorquando questa ha occasione di esternarsi.

Arem