20.6.07

qui come lì

Misuro il mio esser provinciale con la rinuncia, una volta espatriato, a voler registrare le lancette alle sopravvenute esigenze di fuso. Dopodiché lo sbarco a Lisbona fila liscio. Se non fosse per il primo di innumerevoli tassisti (la donna del punto informazioni dell’aeroporto, con cipiglio, aveva tenuto a precisare che tutti i taxi della capitale sono bianchi, e subito che ne spunta uno nero e verde mare) il quale commenta le prossime elezioni alla camera municipale, uscendosene che la politica è tutta una melma nei paesi latini, e la izquierda (la sinistra) non è più quella di una volta, è una pseudo izquierda, una izquierda di destra, per capirci. Scatarra di continuo, una brutta tosse lo affligge, ha un coincecao nel cognome, e ci porta dove indicato. Il piano è il quarto. Le coinquiline che ci ospitano sono tre. Dopo sfuggenti convenevoli, si scende in perlustrazione, si scende in città. Restiamo subito colpiti dalla presenza di moltissimi stabili abbandonati e sbrecciati, persino nella baixa. Superiamo il campo martiri della patria, pieno di galline, anatre, pavoni e ubriaconi. Più in là, statua enorme di medico guaritore, inzeppata di ex voto: devozione popolare. Primo miradouro (belvedere), prima incontro con erasmus vicentina, primo tram giallo in discesa iper ripida. Utilizzo la toilette (memoria) di un centro sociale, arredo vintage e da cui proviene musica anni ’50. All’Accademiu, lì dove non te l’aspetti, un campo da basket al terzo piano e accanto giovani donne che imparano la danza del ventre. Il palazzo dell’Alentejo. Assaggiamo (e gettiamo senza aver gradito) un pessimo liquore di ciliegia. Praca do commerco. Adamastor che dalle pagine di Ricardo Reis si trasmuta nella “piazza degli scoppati”. Fernando Pessoa, immobile dinanzi la Brazileira toglie il gusto a qualcosa. Più significativa la statua dello Chiado. Una gran brezza ci costringe al ritorno. Di sera, la prima delle feste erasmus, al muro gigantografia del topo di casa, e Ginevra in un angolo a spiegare al mio amico intontito, cos’è il desassossego, qual è il fascino della città, che può sembrare pure brutta, ma. Mai più incontrata, eppure ogni sera allungavamo il collo. Giusto avremmo desiderato descrivergli l’incanto per le scoperte dei giorni a venire. Il castello dei mori, che pure mi è costato un vaffanculo dall’italia, e certe stradine e certe macerie di alfama. Compreso un pranzo ignobile in mezzo ad un isola pedonale, nel quartiere che si preparava alla gran festa di sant’antonio, festoni sparsi ovunque, e poster giganti di artisti quali Jessica, Anna Ritta e ToZé Morais. L’Oriente di Calatrava (e altri ancora). La grigliata di erasmus italiani con barbecue approssimativo e discorso chilometrico con una tizia di alba sul tema del divorzio (sul quale c’è stato da poco un referendum in Portogallo), su veltroni e le sue chances, sul diritto alla casa, e altre cose che, dopotutto, ti tengono lontano dal mondo. Una coinquilina di fianco, riconoscendomi a stento, mi dice, sì, ma tu chi sei? Il giorno dopo, ci rendiamo conto di come le donne portoghesi soffrano, sopra la media europea, di zoppia e strabismo, forse per via dei saliscendi sconnessi e di antiche tare genetiche. Una di queste, in metro, ci chiede come sta il papa, bene, grazie, gli riporto i tuoi saluti. L’odore di muffa dei vecchi androni. Riempirsi di Superbock ché la Sagres costa un euro. Prima di arrivare a Sintra, una giovane donna ride della nostra capacità a prendere le misure con la macchina obliteratrice locale. Quasi mi innamoro della sua risata ma poi desisto. Sulla sommità del castello dei mori (un altro) ricevo telefonata dall’italia di convocazione ad un colloquio di lavoro, e se mi buttassi giù? Un sito internet conferma che un amico di famiglia è riuscito a guadagnare un assessorato divertente, così come preannunciava, orgoglioso, il figlio. Con una Seat Ibiza, in strade semi deserte, raggiungiamo prima Batalha, poi Porto (splendida al primo colpo d’occhio). Uno scazzo da brillo per una festa drum & bass, quasi compromette l’armonia. Una bevuta di porto in cantina ricompone gli animi. Coimbra, la studiosa, si presenta vuota e poco interessante. Ci lamentiamo del sorriso mancante di una patatina smile, coll’impressionante cameriera del pizza hut. Degli erasmus tedeschi ci raccolgono e ci portano all’unica festa della città. Dove siamo bravi ad imbastire, con chiunque ci capiti a tiro, un noto gioco di calcio, la “tedesca”, che scopriamo chiamano “brazileira”. Con uno spagnolo, si discute del carattere degli italiani, partendo dall’utilità del contropiede. Lui ne approfitta e mi fa una menata sulla inutilità degli scioperi generali (ce n’è stato uno in Portogallo il 30 maggio, pare grandioso). Oceano a Negres e vicino Caldas de Reinha, col cameriere amante di calcio che ci scruta quasi fossimo quello che sempre avrebbe voluto essere: un tifoso dell’italia. Di ritorno a Lisbona, la maschera di Giangi, il vicentino, che bestemmia con DIO PEPE!, brinda con CION CION!, e canta, impostato, una lacrima sul viso. Le folle oceaniche della notte del dodici giugno, vigilia di Sant’antonio, tutta Lisbona in strada, tra barrio alto fino al castello. L’alba, di nuovo sotto Adamastor, incelofanato. La tomba di Pessoa, la torre di belem, il pasteis de nada e la vacanza che corre a conclusione. Insomma molto bene, se non fosse per qualcosa da registrare. Perché è come se mancasse la parola fine. Qui come lì.

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