21.11.05

noi dei palazzi, loro dei prefabbricati

quando ero piccolo il mio orizzonte era fatto di un paio di palazzacci identici al mio, una superstrada che li cingeva e decine di prefabbricati post terremoto, verdi acqua e dal tetto di lamiera. erano addossati l’uno all’altro confusamente. solo uno stradone con i dossi a dividerli. stracolmi di gente. pieni di bambini come me. io credevo di vivere più che decentemente allora. io ero uno dei palazzi. avevo solo un fratello. mai avrei pensato che dopo un tot di anni sarei cresciuto, trasformato nella persona che sono, abbandonato quel quartiere e soprattutto che al posto di quei prefabbricati potesse nascere il parco più cementato d’italia.

non c’ero ancora il 23 novembre 1980. sono venuto fuori una manciata di anni dopo. ma durante tutta la mia infanzia, il fantasma del terremoto girava eccome. nei racconti della gente. nelle crepe dei muri. nelle macerie delle case. nella paura che tutto si potesse ripetere. saremmo stati più preparati ora? a correre a perdifiato. a salvare la pelle. ci bastava essere nel novero dei sopravvissuti anche questa volta. questione di epicentro. se balli tu, allora ballo anch’io.

e ogni volta si diceva: “se il nostro palazzo ha resistito al terremoto dell’80 è di buona tempra. non può tradirci. salvo la catastrofe totale. ma la catastrofe totale non scampa nessuno. allora perché sopravvivere?” insomma discorsi agghiaccianti, se uno ci pensa. come se il cataclisma avesse indurito i cuori tanto che ognuno pensasse alla sua come una solitaria guerra contro il terremoto e escogitasse dei sistemi su come scamparla. sia chiaro: non è andata così. è che un bambino come me, non poteva che esorcizzare la tragedia, personificare il pericolo, tradurre il tutto in un grande gioco ad eliminazione.

tieni sempre i piedi ben poggiati a terra che in un attimo puoi sentire un fragore venire dal centro del mondo, un’occhiata al lampadario: si muove. anche i muri ballano. tutto viene giù. non toccare la tv. è solo tempo di scappare. non gridare. non serve. chi abita al primo piano, come mia zia, alla comodità di poter fuggire velocemente unisce lo svantaggio di poter essere sepolta da ben cinque piani di macerie. al sesto piano, conviene restare immobili, magari salire sul tetto, almeno governi la caduta. che mente bacata. noi siamo al terzo piano, dunque la nostra strategia deve tenere conto dell’intensità della scossa. per i terremotati dei prefabbricati è più facile, non gli può cadere nulla addosso. si salveranno questa volta. fai come se fossero già eliminati dal gioco.

che poi la circostanza per la quale eravamo ancora in gioco, non garantiva sul nostro benessere né sul decoro del nostro condominio. benché vi abitassero, per la maggior parte, coppie appena sposate, pochissime erano le donne che lavoravano, ancora di meno i laureati. ma ogni famiglia bene o male portava a casa almeno uno stipendio. non sprizzavamo di salute, ma si mangiava sempre. nei prefabbricati si mangiava quasi sempre e di malaticci disoccupati ce n'erano, eccome.

sotto i nostri palazzi, cunicoli bui e maleodoranti facevano da garage. si prega di non orinare sulla saracinesca, rischio marcescenza, mica per l’igiene. alcuni dei garage, i più lontani dalla strada, non erano nemmeno terminati. Il vulcanico costruttore era caduto in disgrazia e nessuno non se lo aspettava. in quei quadrati non rifiniti, parcheggiava chi non poteva permettersi un box tutto suo né l’auto nuova. allora ripiegava su un buon usato. e non l’ ho mai capito ma il buon usato che girava nei miei paraggi era sempre targato cn (cuneo).

dunque non vivevamo nel lusso, ma nei prefabbricati? ci sarò entrato dentro un paio di volte in tutto ad accompagnare mia madre e cosa volete che vi dica, sarà pure banale, ma cazzo era tutto decisamente angusto. quaranta/cinquanta metri per nuclei familiari spesso molto numerosi. per conquistare un po’ di spazio, si tiravano su delle mini verande, ma non è che si risolvesse molto. di pomeriggio masse di bambini bighellonavano per strada così era naturale che si formassero delle bande di pupi.

anche noi (dei palazzi) avevamo una banda. dai sei anni in su, prima solo in estate, poi praticamente tutto l’anno, col nostro inseparabile super santos, scendevamo in strada e giocavamo fino a tardi. eravamo in sette/otto, di cui due più che grassi, due più che magri, insomma poco adatti allo scontro fisico e per la verità un tantinello pavidi, d’altra parte poco più in là giravano sciami di coetanei agguerriti. fin quando i prefabbricati rimasero una casbah popolosa ed inespugnabile, era impensabile per noi oltrepassare il confine immaginario. anzi dovevamo difenderci da pericolose azioni intimidatorie delle bande avversarie (quelle dei bambini-prefabbricati), che, se volevano, s’abbattevano come un ciclone sul nostro campetto, requisivano il pallone, devastavano le porte, schiaffeggiavano il malcapitato di turno, e fuggivano via. era impossibile reagire. era meglio non reagire. a meno che non volessi anticiparli e nasconderti nei cunicoli bui e maleodoranti.

ma venne il tempo del primo sgombero. le nuove case popolari erano finalmente pronte. le prime famiglie iniziavano a traslocare e cominciava la demolizione dei prefabbricati. restavano enormi spazi vuoti. buoni per una partita di calcetto. magari di riconciliazione. in realtà ora che avevano perso parte degli uomini, il nostro coraggio si rianimava. eravamo pronti per una sfida ad armi pari che avrebbe sancito, senza dubbio, chi fosse il migliore. certo il clima, per noi ospiti (seppure a 80 metri da casa), non fu dei più accoglienti. cori ostili, sputi simulati, sottili violenze psicologiche in un campo persino regolare, per noi abituati a giocare in un rombo. insomma venne una sconfitta sonora. I prefabbricati ancora una volta si mostravano più forti dei palazzi.

e non fu un caso. le partitelle, per niente amichevoli, si ripeterono con esiti finanche più disastrosi. nel frattempo lo sgombero proseguiva e presto non ci fu che un solo prefabbricato. oramai eravamo i padroni di tutta l’area. non che ce lo fossimo meritati, era la storia accidenti che così aveva voluto. scorrazzavamo felici per lunghi sopralluoghi tra le macerie dei prefabbricati e raccoglievamo bretelle di plastica con cui costruivamo piste per le macchinine, finalmente fieri della nostra “palazzitudine”. ignari che di lì a poco il tempo avrebbe spazzato via quella fragile vittoria: l’adolescenza, le prime ragazze, i litigi, i due più grassi dimagriti, i due più che smilzi appesantiti. nessuno voleva più giocare a pallone e la paura del terremoto d'un tratto come svanita.

volutamente ho omesso cosa è stato il terremoto per l’irpinia, la macchina dei soccorsi, la solidarietà dell’italia e del mondo, la ricostruzione, i suoi scempi, i suoi miracoli. ma non avrei saputo dire molto. quello che so è come il terremoto è entrato prepotentemente nella mia infanzia, come ci sono entrati i prefabbricati. e la lezione che ne ho tratto. che sarò sempre un privilegiato. uno dei palazzi. che un posto dignitoso dove vivere, bene o male, lo troverà sempre. in ogni caso, se possibile, dio ci scampi un altro terremoto.
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1 commento:

Anonimo ha detto...

E' un post davvero interessante, che lo racconta lo scandalo della costruzione ... con gli occhi di un bambino , uguale a quei tanti che sparirono misteriosamente in que terribili giorni .