l'osso e la colpa
scarno, dall’osso dell’appennino da cui discendono le mie genti, strappate a brandelli, alcuni brandelli ancora attaccati, manca il gusto a sorprendermi né mi sorprende troppo il gusto altrui, arrivo a capire che è una questione di culture, sfumature, ma è la mia che mi sfugge, non si lascia narrare, perché ciò che in essa si trasmette sono i silenzi, impenetrabili, non in tutto simili. mi pare d’intuire che in alcuni, quelli ispirati, ricerchiamo la pace con la terra che attraverso gli uomini non ci riesce di scovare, momenti densi in cui sentiamo come un’intesa intima con il paesaggio attorno, che infatti mai smettiamo di scrutare, perché lo troviamo ogni volta diverso da come lo ricordavamo mentre spesso ci annoiano i volti delle persone perché li troviamo uguali a mille altri, nei tic, negli zigomi, nell’ovale, somiglianze che i vicini stentano ad ammettere. così fatichiamo ad accomodarci nel mondo per come è diventato, fluido, rapido, pavido. che spalanca infinite opportunità di incontro cui presentare ruoli contraddittori. la diagnosi della nostra malattia, della nostra generazione di passaggio, è sintetizzabile nell’illusione di poter cambiare il mondo, vorticosamente assieme ad esso, senza essere disposti a concedergli neanche un millimetro.
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