27.5.13

'na cifra

roma, ore dodici di una domenica di maggio, insolitamente fredda,
piazza san pietro, folla di fedeli inneggia il nuovo papa,
lui venuto a guidare un pontificato di cambiamento,
loro giunti da tutto il mondo per una benedizione,
chi dalla cina, chi da terracina,
lo sguardo che scruta verso l’alto,
un continuo andirivieni
tra la cupola maestosa e la finestra più alta del palazzo,
il vento che muove le pieghe bianche della tenda,
chi vi scorge un’immagine di santità,
altri ricordano le sembianze di un papa del passato,
poi qualcuno stende dalla finestra un panno rosso porpora,
e finalmente il vicario di cristo si affaccia e saluta la piazza,
che gli risponde con un saluto fragoroso ma nel contempo misurato,
dopodiché si spande in quell’abbraccio un silenzio immenso,
tutti provano ad accordarsi ad un solo cuore
e quel cuore si apre alla parola di dio
roma, ore diciotto,
allo stadio olimpico, le due squadre di calcio della città
si contendono il titolo nazionale e l’accesso, per l’anno successivo,
 ad una competizione europea,
in breve, in un anno sportivo magro di soddisfazioni,
di progetti di ricostruzione traballanti, se non fallimentari,
l’opportunità di fregiarsi di una gloria postuma
altrimenti impensabile vista la qualità tecnica in campo,
l’evento si disputa in pomeridiana per mitigare il rischio
di zuffe tra le due tifoserie,
l’attesa in città è spasmodica da settimane,
il papa ha ricevuto le due squadre, 
esortandole alla testimonianza dei più alti valori sportivi,
eppure lo stadio in alcuni settori presenta degli spazi vuoti,
gli stadi che non sono accoglienti come quelli dell’europa che si vuole guadagnare,
ed infatti entrambe le società hanno progetti di costruirseli nuovi, in periferia,
dalle squadre dei campioni alle squadre dei geometri,
lontano da questo stadio che ha ospitato le olimpiadi ma sparuti trionfi calcistici locali,
la partita, per lunghi tratti tirata, termina uno a zero per i biancocelesti,
la città divisa in due prima dell’incontro,
continuerà a dividersi nelle lunghe analisi del post-gara,
in una inconciliabilità sportiva, umana, irreparabile
roma, ore ventidue,
al cinema barberini, sala centrale di una piazza centralissima,
intitolata ad una famiglia dell’aristocrazia cittadina,
file di giovani e meno giovani 
per assistere alla proiezione dell’ultimo film di sorrentino,
di cui la protagonista è proprio la città di roma,
uno sguardo felliniano sulla sua bellezza inesauribile ma estenuante,
la prima scena ritrae le maschere strafatte di una festa cafona di questi tempi,
viste la facce presenti in platea, non ci si può non riconoscere,
il protagonista è un vitellone ultrasessantenne
che approda piuttosto amareggiato alla fine della sua corsa,
la macchina da presa giudica e continuamente contrappone
le bellezze dell’urbe alla modestia morale di chi la abita,
all’uscita capannelli si interrogano sul senso ultimo del film,
alcuni ci vogliono riflettere su,
altri si dilungano in commenti frettolosi,
bello o brutto che si sia
la folla si sfrangia in mille giudizi estetici
roma, intera giornata di domenica
si vota per rinnovare l’assemblea capitolina e la carica di primo cittadino,
1667 candidati consiglieri per 48 scranni disponibili,
19 diversi candidati a sindaco,
cui si aggiungono 137 candidati al ruolo di presidente di municipio,
e 7090 aspiranti consiglieri municipali,
l’affluenza alla fine della giornata è scarsissima,
più bassa del 20% rispetto alle elezioni precedenti,
dopo una campagna elettorale deludente,
con piazze vuote le rare volte in cui i candidati 
hanno provato a misurarsi,
si riduce a ritmi sempre crescenti
il divario tra il numero dei rappresentanti
e quello dei rappresentati
pare avverarsi la profezia della post-democrazia
per cui, finalmente, uno vale uno
ed in fondo, ognuno va per conto suo

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