testamento
in paesi induriti da silenzi sordi, la lingua del cuore è arnese recente
e complicato all'uso. provo ad esprimere quanto da mesi voglio dirti a partire
dal primo punto che è la consapevolezza di un'identità. noi siamo contadini
perché crediamo dia dignità all'uomo la fatica, strappare dalla terra arida il
frutto dopo lungo lavorio. da noi usa che chi le scansa, le fatiche, ritenendole superflue al
proprio ed altrui benessere, è ritenuto inadatto a portare avanti il nome della
famiglia in quanto primo e necessario legame attraverso il quale appartenere
alla comunità larga degli uomini.
siamo contadini perché abbiamo assistito negli ultimi decenni al
deperire spaventosamente rapido di una certa idea di lavoro per la famiglia a
favore della solitaria realizzazione di sé, di un individualismo prepotente e
sterile che desertifica i rapporti tra familiari e li sostituisce con una
socialità d'accatto, dove si recita con una partecipazione emotiva dubbia.
le pressioni e spesso le oppressioni familiari le abbiamo
combattute anche noi ma immaginavamo di poter costruire un avvenire prospero in
cui le morbosità sarebbero state lavate via con la sconfitta dell'ignoranza. invece
abbiamo buttato via le morbosità, i controlli e senza il dialogo che non
avevamo mai sperimentato con una generazione diversa dalla nostra, ci siamo
tenuti dentro proprio l'ignoranza. che è dura da sconfiggere con l'opera di una
sola generazione, è stato una pura illusione crederlo, è una gramigna che
infesta, una pianta che rinasce anche dopo che l'hai sradicata.
l'unica intelligenza che conta non è quella che si può ricavare dai
libri, soprattutto i nostri che avevano finali già scritti, compendi di
ideologie autoritarie, ma è quella relazionale che proviene non solo dal
predicare la tolleranza in principio ma di scontarsi continuamente con le
diversità del mondo non rimanendone paralizzati. sempre preservando uno spazio
di condivisione dove progettare il domani perché mai in tempi stabili, di pensieri uniformi,
si è espresso liberamente il genio dell'uomo.
devo ammettere che una certa idea di lavoro per qualcosa o
qualcuno s'è smarrita perché è venuta meno proprio la materia prima, il lavoro,
che noi ritenevamo oramai un diritto acquisito per la posterità a colpi di dure
lotte. anzi, identificavamo il progresso ed il benessere che esso avrebbe certamente
arrecato con la possibilità di lavorare sempre meno duramente, come un tempo
liberato progressivamente dal lavoro alienato, con spazi crescenti all’amore delle
arti, degli altri. invece, siamo rimasti prima stupiti, poi atterriti da come i saperi professionali si
disintegrassero all’impatto con l’organizzazione flessibile. resiste il
principio che il lavoro rende l’uomo degno di se stesso e degli altri e che
lavorare bene significa fare al meglio le cose.
siamo contadini perché il groviglio delle passioni umane,
l'avidità nello scambio materiale o sentimentale, la superbia dell'essere, la
cupidigia nell'accumulo, sono forze dell'umana tensione che non sappiamo
riconoscere negli altri né interpretare noi stessi. se capita di esserne
affetti, sono mosse da influenze che non sono nostre proprie. probabilmente provengono
da fuori, dal contatto con l'esterno, con valori moderni che su questa nostra terra
non si immagina come possano rendere frutto. da ciò discende la nostra timidezza
o finta alterigia al contatto con gli altri. e poiché non capiamo, naturalmente
non veniamo capiti e alimentiamo maldicenze, dicerie, congetture, paranoie che
denotano esclusivamente una sincera, limpida ignoranza di come possano evolversi
le umane vicende, di quali forze possa realmente celare un cuore.
siamo contadini, abbiamo vissuto sempre in case lontane l’una dall’altra
ed il nostro orgoglio proveniva dal contatto quotidiano con la terra, con la
natura, l’ordine eterno delle cose, l’amore delle bestie cui ci divideva
soltanto la parola. da contadini inurbati soffriamo un pesante senso di colpa
credendo di aver reciso per sempre il cordone ombelicale con le nostre radici,
lasciandoci indietro solo rovina senza per giunta sapere come e con chi
costruire la città, la buona politica, l’etica migliore, insomma la felicità. non
dolertene mai, in tutte le epoche gli uomini hanno avuto buone ragioni per la più
cupa disperazione. chi l’ha saputa affrontare e condurre avanti l’umanità, ha
scelto con immensa cura ed amore cosa salvare del passato. io ti lascio quest’esperienza,
fanne tesoro.
cosi si è congedato mio padre, lasciandomi per l’ennesima volta ad
una delle stazioni di transito della mia vita. stavolta, mi consegnava il suo
testamento spirituale. ed era ben più pesante di qualsiasi valigia.
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