24.2.13

testamento

in paesi induriti da silenzi sordi, la lingua del cuore è arnese recente e complicato all'uso. provo ad esprimere quanto da mesi voglio dirti a partire dal primo punto che è la consapevolezza di un'identità. noi siamo contadini perché crediamo dia dignità all'uomo la fatica, strappare dalla terra arida il frutto dopo lungo lavorio. da noi usa che chi le scansa, le fatiche, ritenendole superflue al proprio ed altrui benessere, è ritenuto inadatto a portare avanti il nome della famiglia in quanto primo e necessario legame attraverso il quale appartenere alla comunità larga degli uomini.

siamo contadini perché abbiamo assistito negli ultimi decenni al deperire spaventosamente rapido di una certa idea di lavoro per la famiglia a favore della solitaria realizzazione di sé, di un individualismo prepotente e sterile che desertifica i rapporti tra familiari e li sostituisce con una socialità d'accatto, dove si recita con una partecipazione emotiva dubbia.
le pressioni e spesso le oppressioni familiari le abbiamo combattute anche noi ma immaginavamo di poter costruire un avvenire prospero in cui le morbosità sarebbero state lavate via con la sconfitta dell'ignoranza. invece abbiamo buttato via le morbosità, i controlli e senza il dialogo che non avevamo mai sperimentato con una generazione diversa dalla nostra, ci siamo tenuti dentro proprio l'ignoranza. che è dura da sconfiggere con l'opera di una sola generazione, è stato una pura illusione crederlo, è una gramigna che infesta, una pianta che rinasce anche dopo che l'hai sradicata.
l'unica intelligenza che conta non è quella che si può ricavare dai libri, soprattutto i nostri che avevano finali già scritti, compendi di ideologie autoritarie, ma è quella relazionale che proviene non solo dal predicare la tolleranza in principio ma di scontarsi continuamente con le diversità del mondo non rimanendone paralizzati. sempre preservando uno spazio di condivisione dove progettare il domani perché mai in tempi stabili, di pensieri uniformi, si è espresso liberamente il genio dell'uomo.
devo ammettere che una certa idea di lavoro per qualcosa o qualcuno s'è smarrita perché è venuta meno proprio la materia prima, il lavoro, che noi ritenevamo oramai un diritto acquisito per la posterità a colpi di dure lotte. anzi, identificavamo il progresso ed il benessere che esso avrebbe certamente arrecato con la possibilità di lavorare sempre meno duramente, come un tempo liberato progressivamente dal lavoro alienato, con spazi crescenti all’amore delle arti, degli altri. invece, siamo rimasti prima stupiti, poi  atterriti da come i saperi professionali si disintegrassero all’impatto con l’organizzazione flessibile. resiste il principio che il lavoro rende l’uomo degno di se stesso e degli altri e che lavorare bene significa fare al meglio le cose.
siamo contadini perché il groviglio delle passioni umane, l'avidità nello scambio materiale o sentimentale, la superbia dell'essere, la cupidigia nell'accumulo, sono forze dell'umana tensione che non sappiamo riconoscere negli altri né interpretare noi stessi. se capita di esserne affetti, sono mosse da influenze che non sono nostre proprie. probabilmente provengono da fuori, dal contatto con l'esterno, con valori moderni che su questa nostra terra non si immagina come possano rendere frutto. da ciò discende la nostra timidezza o finta alterigia al contatto con gli altri. e poiché non capiamo, naturalmente non veniamo capiti e alimentiamo maldicenze, dicerie, congetture, paranoie che denotano esclusivamente una sincera, limpida ignoranza di come possano evolversi le umane vicende, di quali forze possa realmente celare un cuore.
siamo contadini, abbiamo vissuto sempre in case lontane l’una dall’altra ed il nostro orgoglio proveniva dal contatto quotidiano con la terra, con la natura, l’ordine eterno delle cose, l’amore delle bestie cui ci divideva soltanto la parola. da contadini inurbati soffriamo un pesante senso di colpa credendo di aver reciso per sempre il cordone ombelicale con le nostre radici, lasciandoci indietro solo rovina senza per giunta sapere come e con chi costruire la città, la buona politica, l’etica migliore, insomma la felicità. non dolertene mai, in tutte le epoche gli uomini hanno avuto buone ragioni per la più cupa disperazione. chi l’ha saputa affrontare e condurre avanti l’umanità, ha scelto con immensa cura ed amore cosa salvare del passato. io ti lascio quest’esperienza, fanne tesoro.
cosi si è congedato mio padre, lasciandomi per l’ennesima volta ad una delle stazioni di transito della mia vita. stavolta, mi consegnava il suo testamento spirituale. ed era ben più pesante di qualsiasi valigia.

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