le formiche di avellino
di recente, mi allieta fare di frequente armi e bagagli, benché le destinazioni siano sempre quelle, roma, avellino, in ping pong. questa volta col treno alta velocità che però verso aversa rallenta perché i binari non lo permettono e i subappaltatori nemmeno. nel giorno in cui il processo spartacus, dal nome dello schiavo che si rivoltò contro il senato romano, condanna all’ergastolo il boss schiavone tanto a rivoltarsi contro il senato e le istituzioni oggi c’è il capo del governo. i vicini di treno sono due manager che dopo essersi annusati per un po’, decidono che è tempo per fidarsi, e sparlano dei colleghi, della loro immoralità. ogni tanto danno uno sguardo distratto al blackberry o mi scrutano di sottecchi, abbassando la voce nei passaggi maligni più azzardati. napoli si annuncia con le prime palazzine di periferia e un cimitero sulla collina che è un gioiello. più tardi, dopo che il bus air ha sorpassato pericolosamente un incrocio di mezzi a motore incastonati, esposti allo sguardo di mille occhi sui balconi, lo raggiungiamo quel cimitero. del pianto, si chiama, s’affaccia sul golfo sul quale si specchiano il vesuvio e un milione di sofferenze e colline butterate di cave di ghiaia per produrne calcestruzzo, pilastro dell’economia criminale, poi disastro urbanistico e civile. avellino è poco oltre quelle montagne. nella galleria dell’autostrada che la annuncia chiudo gli occhi, ma questo già l’ho scritto. per scaramanzia o soltanto per l’incanto di un risveglio finora sconosciuto. ma è ancora disseminazione illogica di villette di aiuto geometra e amministratori irreprensibili solo del giardino di casa. il giorno dopo, bevo un crodino a cesinali, a spasso per il corso, che s’allunga lentamente. pure sulle sue pietre grigie è una disseminazione di gomme da masticare, che diventano puntoni neri, rifiuti che si fanno stella. il piano strategico cittadino regali ai bambini che giocano una bicicletta per tre super santos. ai vecchi che siedono sul muretto del convitto, tavoli allestiti alla conversazione. il tuo corpo mi serve per non partire continuamente da me stesso. non mi credi perché tutto questo che è intorno è una diffida a non fidarsi. ma noi siamo il nuovo e parliamo male solo all’ospedale. gli ultimi duecento metri del corso verso piazza libertà, sono interrotti dai lavori, gabbie per curiosi della messa in opera, i pedoni le aggirano remissivi, come un corteo di piccole formiche, che si limitano al loro compito e, per tutto il resto, s’affidano al volere della regina.
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