lettera ad un amico mai nato
l’idea di destinare una lettera a qualcuno che non esiste, se non nello spazio intimo compreso tra il sé e il fuori da sé, è un passo compiuto verso la follia, alla maniera del personaggio di saul bellow, herzog, che scrive ossessivamente a dio o al presidente dell’america, perché non riesce ad accettare se stesso. eppure è un atto necessario per sfidare la nostra identità confusa, intrecciata alla nostra epoca confusionaria, malata. per anni, abbiamo covato tutto dentro, fedeli ad un’immagine di noi edificata nell’adolescenza, avvinti al senso di colpa che ne è derivato, per la mancanza di fatti concreti. immagine in base alla quale tutti gli uomini sono uguali, il genio e l’abbrutito. tutti hanno pari dignità; tutti, a confronto con il bisogno di trovare risposta al dubbio estremo di una vita, la morte eterna o l’aldilà, ammutoliscono o straparlano e spesso può accadere che proprio i dotti zittiscano mentre gli stolti siano infusi dal dono dello spirito santo, la parola di dio. in ragione di una sorta di egualitarismo ideologico, un miscuglio di lacerti di socialismo e cristianesimo, - come diceva ignazio silone, “un socialismo senza partito e un cristianesimo senza chiesa” – costruire la nostra identità attraverso scelte precise ed escludenti diveniva un errore da evitare, al più un proposito nascosto o sub-cosciente quanto invece era decisivo rafforzare l’idea secondo cui qualsiasi contesto pubblico fosse identico per noi fatta salva la difesa di un minimo orgoglio di classe. essendo la nostra classe, di estrazione bassa, in baldanzoso ma in fondo insicuro ingresso nella media. e dunque, doppiamente colpevole per aver lasciato qualcuno, e talvolta più di uno, dietro: vite derelitte, esposte al vento di aie nascoste tra colline arretrate, nel senso di ritratte di fronte al mostro della modernità, dell’appennino meridionale. eppure l’uomo adulto impara, o è costretto ad imparare, presto o tardi, che l’immagine di sé costruita nell’adolescenza, il ninnolo intoccabile posato per lustri sulla credenza della sala degli ospiti, non è altro che l’attaccamento inspiegabile ad un fronzolo pur di ritardare l’ingresso nel disordine della vita, in cui non sempre esistono i buoni e i cattivi a tavolino, dove la verità è spesso un caleidoscopio composto dai riflessi di cento occhi, il frastuono fatto dal clamore di cento voci, per non dire degli odori e dell’amaro in gola. l’uomo adulto impara, o è costretto ad imparare, suo malgrado, che la posta in palio non è mai l’avverarsi completo dei sogni della propria adolescenza quanto, e forse enfaticamente, difendere nell’età di mezzo la stessa facoltà di sognare, di progettare la vita, possibilmente con gli altri. le riflessioni di cui sopra vengono dopo che negli ultimi mesi, vicini nati, diversamente da te, e pasciuti, nei quali percepisco la medesima ansia di crescere, mi hanno fatto bersaglio del pietoso giudizio di fuggire codardamente da me stesso, condanna spuntata basta leggere il titolo del blog, vecchio sette anni e sette anni ancora. noi che condividiamo l’infanzia negli ottanta del disfacimento civile, dell’istupidimento collettivo, che due su tre soccombevano agli inflessibili dogmi del consumismo mediatico, nella cornice di un paese impaurito come mai, la cui proiezione geopolitica diveniva l’ombra colta nel momento in cui la fonte luminosa è sopra la testa, dove l’unico insegnamento trasmesso era mai fidarsi, se non dell’immagine a brutto muso di se stessi. la diseducazione di viverci insieme ovvero contro, serrati nell’egoismo del non mi voglio precludere niente, come a dire lasciarsi libera la possibilità di colpire duro il prossimo o di scappare per sempre per non farci mai più i conti, evitare a tutti i costi il conflitto con gli altri, con se stessi, verso la novità di esperienze che sono il riproporsi di logori panorami umani. in luoghi immunizzati dal pericolo della diversità, dell’integrazione del marginale, della convivenza al di là dei conflitti, spazi costruiti per disperdere non la violenza ma l’esprimersi stesso della vita urbana: ricchi vivono tra i ricchi, divertendosi da ricchi, oppressi dal timore di perdere il proprio status, i restanti tutti a tentare di imitarli, a prenotare, invece di fine settimana, una mezz’ora buona nel centro benessere fuori porta ma apparentemente non più fuori portata. nel progressivo depauperamento di contenuto della sfera pubblica dell’esistere, si cotona in maniera ipertrofica il centro centralissimo dell’ego, il mondo degli affetti privatissimi, per cui se cade un meteorite sulla testa sarà colpa dell’occhiolino irridente che un attimo prima ho fatto al cielo. insomma è questo uno sfogo urlato e pasticciato, illogico o smemorato, non perché abbia perso la fiducia o la speranza, ma perché sono consapevole che non ritornerà mai più la sconfinata fiducia o speranza di anni fa, ché l’umanità, a dirla in breve, se si salverà sarà ad opera di minoranze a favore di minoranze, non per l’attuarsi di un’ideologia messianica ma per migliaia di limitate opere di buona volontà. realizzate per lasciare un mondo un granello migliore a chi poi verrà.
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