bisaccia addosso
Caro Arminio
io sono il tuo paese. Ora mi chiamo Bisaccia, ma prima di questo ho avuto altri nomi e c’è stato un tempo in cui non avevo nome. Stavo qui, terra al vento, terra e carne di un perenne sgomento. Vennero alcuni pastori dalle steppe dell’Eurasia. Era un giorno di giugno. Si fermarono qui in silenzio per alcuni millenni. Erano pochi e non divennero mai tanti. La vita allora era diversa, non c’erano recinti, non c’erano proprietà, non c’era ricchezza da accumulare. Raccoglievano erbe, uccidevano le pecore, tessevano e vendevano la lana. Adesso hanno raccolto alcuni pezzi del mio passato. Nel castello c’è la donna, che hanno chiamato principessa, sepolta col suo corredo molti secoli prima che Cristo salisse in croce.
Avevo deciso di raccontarti la mia storia caro Arminio, ma so che dopo un po’ ti annoi. Volevo ringraziarti del tuo scrivere continuamente di me. Lascia stare per un poco però la polvere dell’attualità. Scendi, affonda, vai nelle cantine dei secoli. Vieni a trovarmi nelle vene della terra, ferro e ruggine, lingue morte di serpenti e fiati e bocche di chi parlò vanamente. Vieni a vedere l’ossario che c’è sotto ogni paese, scava, lasciati amare, lasciati trascurare, lasciati ingannare, lascia la colla dei minuti, tu sei nato per soffiare come il vento, sei nato per andare via ogni giorno, vai ti prego, lascia stare queste ombre col muso sporco, questi cancelli, questi cuori a imbuto. Lascia le parole che ogni tanto dici per essere come gli altri miei figli. Io sono il tuo paese e il loro. Io sono il paese di Pinuccio e Peppino, il paese degli scapoli, dei vicoli dove passa solo il vento.
Sorridi ogni tanto a quelli che incontri, sfiorali con gentilezza e poi sparisci, tu non sei un uomo nato qui. Tua madre se n’è accorta subito, per questo ti trattiene, lei sente che non sei suo e tu ti ostini a pensare che non sei di nessuno. Continui a dare più attenzione alle ingiurie che agli affetti. Stai qui non per vivere ma per tenere in vita la tua paura della vita. Te la prendi con me e con il tuo corpo, pensi che siamo la tua prigione e non la finisci mai di lagnarti, non ti basta mai niente. Dillo che non sei dentro di te, dillo a tutti che quello che hai scritto è ancora solo un piccolo esercizio e che ti stai preparando per squarciare il petto a quel vecchio ragno che si chiama Dio. Non chiuderti dentro l’armadio del tuo mal di stomaco, del tuo mangiare per spiare il male, per affondare le farfalle che ti prendono la testa e la fanno volare.
Lo sai che ti guardo, so tutto di te, anche che adesso ti sei fatto crescere la barba e che nella tua casa si è rotta la caldaia dei termosifoni. Mi consola il fatto che ci sei, però non mi piace che combatti la tua impazienza, vorresti farla più piccola, accogliente. Tu non sei fatto per accogliere, per stare fermo ad aspettare. Tu devi scendere in me, ascoltarmi, la tua carne non sa fare altro che ascoltare, è una carne a bocca aperta, il tuo cuore è disteso sulla lingua e il filo di sangue che ti attraversa è felice come un bambino che non è andato a scuola.
Ti ricordi le grandi nevicate dell’infanzia, i passeri, le tagliole che metteva tuo cugino? Lo so che ti piaceva la neve che saliva. Adesso la neve non arriva, viene spalata in cielo, prima di cadere. Adesso c’è questa nebbia vergognosa, i vecchi del centro anziani sono rimasti in cinque, non si vedono galline, non ci sono più i muli, certe sere la piazza è piena di macchine parcheggiate ma in giro non si vede nessuno.
Io sono il tuo paese, sono la somma delle case, sono ogni tegola, ogni scalino, sono ogni gatto, ogni luce sul comodino, sono i vecchi delle vie fredde e cupe, i giovani delle ville sperdute, sono il grano che comincia a crescere, sono la pala eolica, la quaglia, la rondine quando arriva. Sono il freddo che conosci bene e che prima ti piaceva tanto e ora ti fa paura. Ti vedo uscire incappucciato, non entri mai in un bar, non giochi a carte. Hai paura di sederti, senti che quella è una trappola, ma ti sbagli, e sbagli a stare in casa a farti una tisana, a fare colazione con biscotti e camomilla. Vai al bar, beviti un caffè senza paura, passeggia con chi capita, spreca il tuo tempo, fattelo rubare, non averne alcuna cura.
Lo so che sei sempre in ansia, lo so che hai paura di morire. So che scrivi ogni giorno e che adesso non hai problemi a vedere stampati i tuoi libri. Potrei citarti ognuna delle tue poesie. Quando parli di me sembri più ispirato. Quando scrivi dei paesi le tue parole hanno leggerezza e peso. Quando parli d’altro sembra che giri a vuoto. La verità è che mi hai scelto per capire il mondo, la verità è che io sono la tua sposa, tuo fratello, il tuo incubo e la tua speranza. Lo sai, c’è un piacere o un dispiacere dell’abitante verso il suo paese, ma c’è anche un piacere o un dispiacere del paese verso il suo abitante.
Lo so, ho un cattivo carattere. Ogni paese è diverso da un altro, lo hai scritto tu che non ce ne sono due uguali. Anche in questo io mi sento come te, sarà per come sono fatto sotto terra, crepe e argille sciolte. Sarà per questo mio essere in mezzo a tre regioni senza di fatto appartenere a nessuna di esse. Io non sono Campania, né Puglia, né Lucania. Ho un clima da nord Europa. Solo poche case sono girate verso sud. Sono la Bisaccia appoggiata su un cavallo tremante. Niente è fermo in me, sono un paese che naviga nell’argilla con le spine nei fianchi.
Tu sei in me solo da mezzo secolo. Io sono in me da millenni. Ci si stanca pure ad essere un luogo, si perde entusiasmo. Alla fine è sempre un vedere il sole che nasce e muore, alla fine ti senti un pretesto per far girare il cerchio storto delle stagioni. Puoi sentirti come vuoi, sempre qui resti, a prendere freddo e terremoti, a prendere il vento che qui viene pure da sotto. Questa l’ho sentita da te, tu lo chiami il vento del thanatos.
Lo sai che per me è difficile capire dove finisco e dove comincio. Il cielo mi appartiene? Mi appartiene la terra nel profondo della terra? Anche un paese ha i suoi problemi di identità. Ha la sua coscienza e il suo inconscio. Le sue simpatie e le sue antipatie. Potrei dirteli uno ad uno gli indegni di abitarmi e so che ti piacerebbe, ti piacciono i ritratti di una riga, ma so che mentre mi ascolti ti distrai, pensi al tuo cuore, pensi al fatto che ti sei stancato di stare qui.
Lo so, avresti bisogno di stare per un poco da un’altra parte. Se vuoi puoi andare, non sono io che ti trattengo. Sai bene che altrove ti senti perso. Non riesci a crederci che puoi lasciarmi, non ci hai mai creduto. Forse perché qui in fondo non ci sei mai stato. Lo sai che ti conosco e so bene che io per te sono un pretesto, un modo per farti avvistare, per vedere se qualcuno viene a vederti. Sai pure che quando questo accade la cosa ti innervosisce, è come se tu volessi prolungare a tutti i costi il disagio, l’incomprensione. Ti sei troppo legato a ciò che ti è mancato, ti sei troppo abituato a tremare, a pensare all’imminenza della morte. Ti piace questo stare in bilico, ti piace il fatto che ti stanco, che ti porto al limite dello sfinimento. Tu credi che non posso darti altro che scrittura. Adesso esci troppo raramente e sempre con la macchina fotografica o la telecamera. Se non trovi una faccia interessante ti rivolgi ai muri, alle finestre. Hai fotografato ogni pietra, ogni portale, conosci a che ora arriva il sole su quella panchina, ma niente serve a distrarti e non finisci mai di pensarti, stai sempre in mezzo ai tuoi pensieri. Ti ho visto tante volte che hai lasciato il computer, ti sei alzato con l’idea che stava per arrivare il momento fatale. Qualche volta sei rimasto a casa, altre volte hai preso la via dell’ospedale. Ci sei entrato poche volte, ti bastava avvicinarti. Lo so l’effetto che ti faccio in certi giorni d’inverno, lo so che ti senti come una mosca nella bottiglia. Quando c’è il sole prendi la bicicletta e allenti un poco la tensione. Quando vai in giro per gli altri paesi e stai lontano dal computer la giornata fila senza troppe ansie. È qui che ti faccio male, ma stai tranquillo, faccio male anche ad altri. Li vedi quelli che girano tutti i bar, quelli hanno la tua età e sembrano già morti. Forse qui si salvano solo quelli che hanno meno di vent’anni e più di ottanta. Chi sta in mezzo o è agitato e sconnesso, oppure è in preda all’accidia.
Tu almeno hai capito come sfruttarmi. Mi usi come un laboratorio, sono il tuo esperimento. Ma guardati con distacco, non ti affannare, pensa ai ragazzi che vanno a lavorare alla Fiat e che fanno un’ora di macchina all’andata e una al ritorno, pensa quando partono d’inverno alle cinque del mattino. Pensa ai morti al cimitero, alle persone giovani che sono morte di cirrosi senza mai abbracciare una donna: erano qui pure loro. Quando eravamo novemila abitanti, quando stavamo stretti io mi vedevo poco. Adesso che siete in meno sembra che ognuno di voi voglia prendersela con me.
Io sono il giorno di Sant’Antonio, sono il sogno di tornare di un emigrato in America, sono un ragazzo che non vorrebbe mai andarsene, sono quel vecchio che non vuole morire, sono un avvocato disoccupato, sono una ragazzina che vaga col suo telefonino. Guardati in giro, nessuno risolve niente, si tratta solo di accogliere questa inesorabile verità. È inutile che mi usi come un pescatore usa un fiume. Sei un pescatore della desolazione, è un pescare a vuoto, è un pescare il vuoto.
Non puoi tirare avanti in questo modo, te lo ripeti almeno da una decina d’anni. Ormai mi somigli, ormai ci confondiamo. Una volta un critico ha detto che io esisto grazie a te. Si riferiva alla fama, immagino. Lo so che molti lontano da qui sanno il mio nome per merito tuo. Cosa vuoi che me ne faccia della fama? Un paese non ha ambizioni di essere conosciuto. Un paese non si aspetta niente dalla vita. È una cosa che esiste e si trasforma, una cosa che nasce e muore e dopo nasce di nuovo. Un giorno non ci sarà nessuna casa eppure io sarò ancora qui, la luce arriverà e arriverà la pioggia. Tu non ci sarai, lo so che ti fa orrore lasciarmi, lasciare il filo della terra, ancora non ti fai sommergere, ancora non ti fai bagnare dal pensiero che siamo destinati alla morte, cioè all’eterno dissolvimento. Ci sono persone morte diecimila anni fa e ancora non smettono di dissolversi, ancora c’è qualche atomo che si squarcia, che perde i suoi elettroni in questa poltiglia universale.
Tu non devi più occuparti della morte. Preoccupati di mangiare meno e di camminare di più. Non pensare a quello che ti può accadere. Sembra un pensiero facile, ma davvero c’è solo da cogliere l’attimo, c’è solo da pensare alla grazia di essere qui, di essere una parte del mondo, una parte unica come ogni altra. Vedi, adesso cade qualche fiocco di neve, so che più tardi vorresti uscire a filmare il paesaggio o a fotografare le mie porte chiuse o le mie porte murate.
Ora non è il caso di parlare di sindaci incapaci, non è il caso di parlare dei professori di scuola media che nulla hanno fatto per me. Non è il caso di parlare di persone piantate nel cemento delle loro case e neppure dei maldicenti che corrono per la piazza a passi brevi. Sono storie vecchie, ormai sei fuori, non ti riguardano. Sei qui solamente per partire, per riposarti tra un viaggio e l’altro, stai qui a scrivere d’altri paesi e io non mi ingelosisco, ti lascio fare, so che alla fine comunque parli di me, so che stare con me è più sano che stare con qualcos’altro.
Esci allora, esci anche stamattina. Magari ti passa anche il mal di stomaco. Io resto, non mi muovo, la mia natura è restare, è prendere la forma che la storia e gli uomini mi sanno dare.
Adesso la mia forma mi piace. Per voi è rotta e sconsolante, ma io trovo che sia unica e che va oltre il bene e il male. Io non diverto, non attraggo. Sono impervio e rude, non rilasso, faccio innervosire. Chi vuole il frivolo e il piacevole vada altrove. Io sono oltraggio, mancanza, maldicenza. Sono rancore a oltranza. Questa però è solo apparenza. In fondo ho un cuore buono e inerme. Sono mite e distratto, non bado a imbellettarmi, a darmi arie. Non penso a proteggermi, non mi sottraggo a niente. Potete anche lasciarmi solo, non ve ne farò una colpa. Sarò sempre qualcosa, anche se mi dimenticate, se mi seppellite. Tu questo lo sai bene, tu sei provvisorio e io definitivo.
Poco fa pensavo che mi è venuta l’idea di dirti cos’è un paese, posso dirlo solo a te che hai inventato la paesologia. Un paese è un dio, un dio locale. Quello che non funziona nell’idea di Dio spacciata dalle varie religioni è che sono sempre idee enormi, mai circoscritte. C’è sempre questa frenesia dell’infinito. Forse erano più veri gli dei pagani, uno per ogni cosa. E allora Bisaccia non è il nome di un paese ma il nome di un dio, il tuo dio.
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